• Sogno di Napoli - Traum von Neapel

    April 11 in Germany ⋅ ⛅ 17 °C

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    Sogno di Napoli

    Vivo in un piccolo paese, da qualche parte tra sette dolci colline e ciliegi in fiore, nel cuore della Renania. Fin da bambino portavo nel petto una nostalgia profonda. Una nostalgia che non sembrava appartenere a questo tempo, ma veniva da racconti, profumi, canzoni e vecchie fotografie. Nelle mie vene scorreva il mare di Napoli, anche se lo conoscevo solo di sfuggita.

    Mio nonno, Aniello, era nato nel quartiere Mercato. Un labirinto di vicoli pieni di voci, fili di panni, cassette di pesce, risate e urla. Lì, nel cuore pulsante di Napoli, aveva imparato ad amare la vita e a sopravvivere, dopo la guerra. E quando il mondo si era rimesso in piedi, il destino – o forse solo un vecchio treno troppo pieno e con troppe poche promesse – lo aveva portato nella fredda e sconosciuta Germania.

    Lì aveva lavorato con le mani dure e un cuore che batteva in italiano. Aveva costruito una famiglia e, ad ogni bicchiere di vino rosso e ogni piatto di pasta fumante, mi raccontava della sua città. Di Santa Lucia, della bellezza sfacciata delle donne napoletane, dei vecchi che giocavano a Scopa al sole, delle Vespe che sfrecciavano come mosche tra i vicoli stretti.

    Quelle storie si sono incise nel mio cuore.

    Da piccolo ero affascinato dalla lingua di mio nonno: dalle “r” arrotolate, dalle frasi cantate, che sembravano musica. Crescendo, decisi di trasferirmi a Pisa. Volevo più delle parole. Volevo sentire la terra sotto i piedi.

    Lì, tra mura antiche, cicale e il profumo del caffè, i miei coinquilini mi hanno insegnato molto più della lingua. Mi hanno fatto conoscere la vera “dolce vita”: le risate mentre si cucina, il condividere il pane e le storie, il sedersi a tavola per ore. Non per saziarsi, ma per vivere.

    E così mi sono innamorato. Non solo della lingua, ma di tutto: della vita, delle persone, delle risate, e dell’arte di creare magia con ingredienti semplici.

    Portavo quell’amore per l’Italia come una fiamma accesa nel cuore, e la facevo brillare anche nella mia terra. Organizzavo grandi feste, dove le risate rotolavano sui tavoli come il mare sulle rocce di Posillipo. Nelle sere d’estate si sentivano tintinnare i bicchieri dell’aperitivo, la terrazza profumava di pizza e sogni. Tra vasi di ulivo, cespugli di basilico e vecchie canzoni italiane, mi costruivo piccole isole d’Italia nel mezzo della quotidianità tedesca.

    Leggevo libri in italiano, cucinavo il ragù come se la felicità dipendesse da esso, e ogni volta che potevo, partivo verso sud, sempre un po’ alla ricerca dell’anima dell’Italia.

    Ma dentro di me cresceva un dubbio silenzioso. Per quanto belle fossero le parole, il cibo, le canzoni e i ricordi – erano solo ombre. Riflessi di una luce che volevo vedere con i miei occhi.

    E così passarono gli anni, finché una mattina, dopo il mio dottorato in matematica, con un titolo che quasi nessuno riusciva a pronunciare, mi svegliai, feci lo zaino, salii sulla mia piccola Vespa color crema e partii. Con un sorriso che era insieme un addio e un nuovo inizio.

    Partii con il sole sul viso e il vento nell’anima.

    Attraversai le dolci pendici alpine, passando accanto a mucche che mi guardavano perplesse. Il Brennero sembrava chiedermi: “Sei sicuro?” Ma io andai avanti. Il Lago di Garda brillava come un pezzo di cielo sulla terra, il sole scaldava i miei pensieri. L’Adriatico mi accompagnava col suo blu scintillante, e dietro ogni curva c’era un nuovo paesaggio, un nuovo profumo, un nuovo sorriso.

    Entrai in Campania piano, quasi con timore.

    E poi, una mattina, quando la nebbia si alzò, lo vidi: il Vesuvio, maestoso e silenzioso, come se mi stesse aspettando. E sotto di lui, come un drago addormentato, selvaggia, caotica, meravigliosa: Napoli.

    Il mio cuore cominciò a battere più forte.

    Percorsi gli ultimi chilometri con le lacrime agli occhi, come se stessi tornando a casa, anche se non ci avevo mai vissuto. La città non mi accolse con cerimonie, ma con un clacson, un vecchio che gridava “A’ Maronna t’accumpagna!”, e un odore di fritto e salsedine.

    Nel Mercato cercai i vicoli di cui mi aveva parlato Nonno. Li trovai, invecchiati, ma vivi. In una trattoria, tra tovaglie a quadretti e risate di bambini, per un attimo mi sembrò di vedere mio nonno al tavolo accanto, che mi faceva l’occhiolino e diceva: “Brav’, figlio mio. Benvenuto a casa.”

    E così iniziò un nuovo capitolo.

    Non da turista. Non da straniero.

    Ma come parte di una storia che non era mai finita.

    Napoli, mi dissero, non è una città. È un sentimento.

    E io, con le mani sporche d’olio, un sorriso sulle labbra e farina nei capelli, lo sentivo: ero finalmente arrivato.

    Fine.

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    Traum von Neapel

    Ich lebe in einem kleinen Ort irgendwo zwischen sieben sanften Hügeln und blühenden Kirschbäumen im Rheinland. Schon früh trug ich ein Herz voll Sehnsucht in mir. Eine Sehnsucht, die nicht aus dieser Zeit zu stammen schien. Sie kam aus Geschichten, aus Düften, Liedern und alten Fotografien. In meinem Blut rauschte das Meer von Neapel, obwohl ich es nur flüchtig kannte.

    Mein Nonno, Aniello, war einst ein Kind des Viertels Mercato. Ein Labyrinth aus Gassen, voller Stimmen, Wäscheleinen, Fischkisten, Gelächter und Gebrüll. Dort, im brodelnden Herzen Neapels, hatte er nach dem Krieg das Leben lieben und das Überleben lernen müssen. Und als die Welt sich neu sortierte, führte ihn das Schicksal – oder vielleicht nur ein alter Zug mit zu vielen Menschen und zu wenig Versprechen – in das kalte, fremde Deutschland.

    Dort arbeitete er mit rauen Händen und einem Herzen, das auf Italienisch schlug. Er baute eine Familie auf und erzählte mir bei jedem Glas Rotwein und jeder dampfenden Pasta von seiner Stadt. Von Santa Lucia, von der frechen Schönheit der neapolitanischen Frauen, von den alten Männern, die auf Plastikstühlen in der Sonne Scopa spielten, von Vespas, die wie Fliegen durch die engen Gassen schwirrten.

    Diese Geschichten brannten sich tief in mein Herz.

    Schon als Kind war ich fasziniert von der Sprache meines Großvaters: von den rollenden „r“, den singenden Sätzen, die wie Musik klangen. Später, als junger Mann, zog es mich nach Pisa. Ich wollte mehr als nur Worte verstehen – ich wollte das Land fühlen.

    Dort, zwischen alten Mauern, Zikadengesang und dem Duft von frischem Kaffee, lehrten mich meine lieben Mitbewohner nicht nur die Sprache. Sie zeigten mir, was „la dolce vita“ wirklich bedeutet: Das Lachen beim Kochen, das Teilen von Brot und Geschichten, das stundenlange Sitzen am Tisch. Nicht, um satt zu werden, sondern um zu leben.

    Und so verliebte ich mich nicht nur in die Sprache, sondern in alles: in das Leben, das Lachen, die Menschen und in die Kunst, aus einfachsten Zutaten Magie zu zaubern.

    Ich trug die Begeisterung für Italien wie eine leuchtende Flamme in meinem Herzen und ließ sie auch in meiner Heimat hell brennen. Ich veranstaltete große Feste, bei denen das Lachen über die Tische rollte wie das Meer über die Felsen von Posillipo. An warmen Abenden klangen Gläser beim Aperitivo, die Terrasse duftete nach frischer Pizza und Sommerträumen. Inmitten von Olivenbäumen in Kübeln, duftenden Basilikumsträuchern und alten Canzoni schuf ich mir kleine Inseln Italiens, mitten im deutschen Alltag.

    Ich las Bücher auf Italienisch, kochte Ragù, als hinge das Glück davon ab, und reiste, so oft ich konnte, gen Süden – immer ein wenig auf der Suche nach der Seele Italiens.

    Doch tief in mir regte sich ein leiser Zweifel. So schön all das auch war – die Sprache, das Essen, die Lieder, die Erinnerungen – sie waren nur Schatten. Reflexionen eines Lichts, das ich endlich mit eigenen Augen sehen wollte.

    Und so vergingen die Jahre, bis ich eines Morgens nach meiner Promotion in Mathematik – mit einem Titel, den kaum jemand aussprechen konnte – aufwachte, meinen alten Rucksack packte, mich auf meine kleine, cremefarbene Vespa setzte und mich verabschiedete mit einem Lächeln, das gleichzeitig Abschied und Aufbruch war.

    Ich fuhr mit der Sonne im Gesicht und dem Wind in der Seele.

    Über die sanften Alpenhänge, vorbei an Kühen, die mich verwundert musterten. Der Brenner zog sich, als wollte er mir sagen: "Bist du sicher?" Aber ich fuhr weiter. Der Gardasee funkelte wie ein Stück Himmel auf der Erde, die Sonne wärmte meine Gedanken. Die Adria begleitete mich mit ihrem glitzernden Blau, und hinter jeder Kurve wartete ein neues Bild, ein neuer Duft, ein neues Lächeln.

    Langsam, fast ehrfürchtig, rollte ich durch Kampanien.

    Dann, eines Morgens, als sich der Nebel lichtete, sah ich ihn: den Vesuv, mächtig und still, als warte er nur auf diesen Moment. Und unter ihm, wie ein schlafender Drache, wild, chaotisch, wunderschön: Neapel.

    Mein Herz schlug schneller.

    Ich fuhr die letzten Kilometer mit Tränen in den Augen, als ob ich nach Hause käme, obwohl ich nie dort gelebt hatte. Die Stadt empfing mich nicht mit Pomp, sondern mit einem hupenden Fiat, einem alten Mann, der „A’ Maronna t’accumpagna!“ rief, und einem Geruch von frittiertem Teig und Meersalz.

    In Mercato suchte ich die Gassen, von denen Nonno erzählt hatte. Ich fand sie, gealtert, doch lebendig. In einer Trattoria, zwischen karierten Tischdecken und Kinderlachen, glaubte ich für einen Moment, meinen Großvater am Nebentisch zu sehen, wie er mir zuzwinkerte und sagte: „Brav’, figlio mio. Willkommen zu Hause.“

    Und so begann ein neues Kapitel.

    Nicht als Tourist, nicht als Fremder.

    Sondern als ein Teil einer Geschichte, die nie geendet hatte.

    Neapel, sagte man mir, sei keine Stadt. Es sei ein Gefühl.

    Und ich – mit Öl an den Händen, einem Lächeln auf den Lippen und Mehl im Haar – ich fühlte es: Ich war endlich angekommen.

    Ende.
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