Crema-Sanremo

March 2024
Una breve fuga verso la primavera Read more
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  • Day 1

    Dis-connesso

    March 14 in Italy ⋅ ☁️ 17 °C

    Alla fine la pigrizia ha prevalso. Ho continuato a rimandare il momento di scrivere e alla fine eccomi qui, a narrare gli eventi e le sensazioni del 14 ma dopo due giorni. Troppe sensazioni si sono succedute e accavallate, e quel che resta è una confusione totale. Tuttavia cercherò di fare un po’ d’ordine.
    La prima metà del primo giorno è andata bene, anzi benissimo: sono partito con un sole timido che però già prometteva di vincere la sua timidezza durante la giornata. La gamba poi era bella sciolta e così i primi 60-70 km sono volati. Lo so, era anche tutto pianeggiante e soprattutto sapevo dove andare, avendolo già fatto quel pezzo. Inoltre l’attraversamento della città è stato meno complicato che in altre occasioni: in pratica ho tracciato una lunga linea retta in direzione sud-ovest, ho trafitto il centro storico con un fendente trionfante e cosi via, verso l’infinito e oltre. La prima metà è stata però anche la più noiosa: di fatti la conoscenza del tracciato ti velocizza, ma toglie anche quel brivido dell’ignoto che solo le strade battute per la prima volta sanno dare.
    Fatto sta che dopo un sosta per la spesa al Conad sono ripartito fiducioso. Il tempo di attraversare il Trebbia e di superare Rivalta e il suo castello, e già ho avuto i primi sentori che da li in poi non sarebbe stato cosi semplice. Comincio una salita lieve e mi meraviglio di quanto il posto che sto attraversando mi faccia pensare alla Contea. Distratto da questa piacevole suggestione quasi mi perdo una svolta repentina che mi porta sul primo (e forse unico vero) off-road. Non sarebbe un problema se non fosse che le piogge insistenti delle ultime settimane lo hanno trasformato in una trappola di fango: la bici affonda nella melma, le ruote slittano e ad ogni salitella mi impantano e devo portare la bici a mano, con bestemmie annesse. Il tutto non mi impedisce di godere della meraviglia del paesaggio: sono completamente solo, in un boschetto sperduto da qualche parte nella val trebbia. Sono eccitato dall’avventura ma anche preoccupato. Gli smadonnamenti proseguono fino all’uscita dalla “trappola”. La strada torna ad essere praticabile e, dopo una breve salita, mi si apre una vista mozzafiato sulla vallata circostante. È il luogo perfetto per la meritata pausa pranzo.
    Non faccio in tempo a ripartire che arriva quello che poi si è rivelato il momento piuttosto critico del viaggio. Parte una salita, e fin qui ok: granny gear e su a 5/6 km/h. A un certo punto però il Garmin mi fa prendere una deviazione dalla strada principale, e quasi me la perdo perché stavo curando da lontano il ragazzo in bici che mi ha superato quasi ad inizio salita. La inforco ed ecco che la salita diventa una rampa: comincio ad annaspare, la vista tutti i sensi mi si annebbiano; sbando, quasi cado dalla bici e mi devo arrendere e portarla (a fatica) a mano. Mi mancano proprio le forze, mi sento svuotato di ogni energia vitale. Il che mi preoccupa, perché i km che restano sono ancora parecchi e io in questo momento vorrei solo bere e collassare da qualche parte. In qualche modo arrivo in cima alla rampa, dove incontro di nuovo il ragazzo di prima che mi rivela che lui quella salita non la farebbe nemmeno al contrario (cioè in discesa ahah) e che era meglio stare sul tracciato principale. Uno scambio di battute e riprendo il cammino, rincuorato dalle sue parole. Col senno di poi, l’ho fatta fuori dal vaso, e avevo tutte le ragioni per sentirmi a pezzi su una salita del genere. Ciò non mi toglie una fastidiosa apprensione per i rimanenti gpm: ormai sto attento ad ogni variazione di pendenza, il mio corpo è ormai tarato al millimetro. Sulle salite più leggere la mano tende a portare il cambio su rapporti più lunghi, ma poi la mente urla frena gringo dove cazzo vai, sali piano ma sali, ci vuole pazienza.
    Questa è la filosofia che mi accompagna per i km restanti. I gpm arrivano ma li affronto piu serenamente. È un continuo saliscendi, attraverso una valle incantevole, quasi fuori dal tempo, irreale sospesa in un sogno. La luce del sole illumina un paesaggio ondulato dal quale si ergono ogni tanto degli spuntoni di roccia sui quali sono arroccate piccole fortezze e bastioni. Mi sembra di essere nel medioevo e non mi stupirei se da un momento all’altro mi superasse un cavaliere al trotto. Tra tutte le vette ce n’è una in particolare che spicca, il monte Bogo, che sembra volermi sfidare mentre arranco sulle salite che la cingono. È un continuo salire e scendere, scendere e salire, senza mai arrivare in vetta.
    Ogni tanto mi ritrovo sul dorso di una collina e non riesco a trattenere un piccolo urlo di gioia.
    Due considerazioni lungo questo ultimo tratto. Primo, credo di aver sviluppato un feticismo per gli alberi isolati nel paesaggio: l’albero solitario e stoico mi fa impazzire. Secondo, chi l’ha detto che i cimiteri sono luoghi privi di vita. Nei cimiteri si trova l’acqua, e l’acqua oggi è la mia salvezza, la mia linfa vitale!
    Alla fine senza quasi accorgermene, dopo un ultimo tratto prevalentemente in discesa che mi riporta a livello fiume, giungo a Piancasale, la tappa intermedia del viaggio. Sono esausto e un posto comodo, intimo e tranquillo è quello che mi ci vuole per rigenerarmi. L’host del b&b è gentilissimo e disponibile, ha addirittura comprato delle banane apposta per me, sapendo che sto viaggiando in bici. Mi doccio, mangio qualcosa, mi corico e collasso nel letto davanti alla tv. Domani è un altro giorno.
    In tutto questo ho dimenticato di dire una cosa fondamentale: le sensazioni e lo spirito oggi sono stati negativi. Per tutto il giorno non sono riuscito a connettermi con il viaggio, a settarmi sulle frequenze giuste, ero troppo distratto dall’ansia di dover catturare il momento giusto da condividere su quei cazzo di social. Ed il risultato è che metá delle foto che ho fatto mi fanno cagare. Troppo tempo attaccato a quel cellulare, troppo tempo cazzo.
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  • Day 2

    Umidi umani

    March 15 in Italy ⋅ ☁️ 13 °C

    Al risveglio il corpo è abbastanza indolenzito, specialmente la parte bassa della schiena. Considerando che mi aspettano altri 112 km con più di 1600 m di dislivello, le premesse non sono buone. Comunque non mi perdo d’animo, anzi c’è voglia di riscatto dopo una prima giornata vissuta cosi e cosi. Troppe distrazioni, troppe scorie da smaltire forse, troppe sovrastrutture che mi hanno impedito di connettermi al viaggio e di disconnettermi certi vizi che odio, ma che sono così difficili da correggere. Fatto sta che voglio godermi il più possibile questa seconda tappa.
    La colazione riabilita il corpo e lo spirito. Il signore che mi ospita (purtroppo non so il nome) è super gentile e mi lascia un sacco di cose da mangiare, ed insiste per farmi portare via due banane e un pezzo di focaccia che ha comprato apposta per me. Mi consiglia anche un posto dove mangiare lungo il tragitto (il rifugio dei cacciatori a Montebruno).
    Ultimo la preparazione della bici e parto, rinvigorito dal pasto e un po’ più ottimista riguardo alle sorti di questa seconda giornata: continuo a ripetermi che le salite le farò con calma, se ci sarà bisogno la spingerò anche a mano la bici. Non sento nemmeno troppo l’ansia di dover rincorrere il tempo. Arriverò quando arriverò, in ogni caso arriverò. Questo è lo spirito.
    Il sole non si fa desiderare alla partenza, anzi, per essere mattino fa quasi caldo. Dopo due km arrivo a Bobbio e non posso fare a meno di attraversare il ponte del Diavolo e di togliermi la soddisfazione di una foto con la bici e il ponte sullo sfondo. Poi si parte veramente. Onestamente ero un po’ scettico riguardo ai panorami che avrebbe potuto offrirmi questa seconda giornata, svolgendosi per buona parte sulla statale che si snoda lungo la valle. Mi immaginavo già macchine che mi sfrecciavano a pochi centimetri e vista ostacolata dai guard-rail. E invece sono stato smentito subito. La strada non era per niente trafficata e pericolosa e ho potuto godermi i continui sali e scendi, anzi molto scendi e poco sali. L’unica nota negativa: i semafori per via dei lavori lungo la statale; rossi interminabili e ritmo continuamente spezzato, ma fa niente.
    Le uniche due preoccupazioni sono il tempo e le salite. Il tempo perché all’orizzonte sull’Appennino vedo addensarsi nubi. Le salite perché, alla luce della crisi che ho avuto il giorno prima, oggi ho l’ansia da prestazione.
    Per quanto riguarda il tempo, ci ho azzeccato. Superato Montebruno affronto il primo gpm serio, che mi porta a più di 1000 m di quota. Qui piove e c’è pure foschia, gli occhiali si appannano e l’umidità della pioggia penetra fin dentro il mio spirito. Il paesaggio è spettrale, irreale, sembra quasi di essere sospesi in un tempo e in un luogo indefiniti; mi sembra che questa salita, a tratti molto impegnativa ma non impossibile, non porti da nessuna parte. Ed effettivamente in cima non trovo quasi nulla, solo case sporadiche e nemmeno una traccia di umanità. Mi sento strano, mi domando cosa sto facendo, chi me l’ha fatto fare. Mi sento perso, piccolissimo in mezzo a un mondo piovoso. Mi fermo a mangiare al termine del secondo gpm impegnativo, sotto la pioggia e col freddo che paralizza ogni buona sensazione. Vorrei essere a casa, non essere mai partito. Le mani sono congelate e impregnate di umidità. Mi rimetto in sella sperando che la salita duri ancora un po’, di modo da riuscire a scaldarmi. E invece ecco che scollina, e allora giù in mezzo a pioggia e foschia, senza la minima sensibilità alle dita che pinzano sui freni.
    Più procedo più aumenta la sensazione di smarrimento, è un momento difficile in cui devo concentrarmi tantissimo per non ricadere in una crisi di nervi. Non so dove mi trovo, non so dove sto andando, sto solo seguendo una strada tutta rotta in mezzo alle montagne e i boschi. L’atmosfera è straniante, mi sento piccolo piccolo in mezzo al nulla, in un non-luogo che sembra aver cacciato via con la forza ogni forma di vita animale. Qui la natura sembra aver ribadito dopo un’estenuante lotta chi è che comanda, si sta riprendendo i suoi spazi sgretolando lentamente ogni frutto dell’arroganza umana. Ogni tanto raggiungo piccoli agglomerati di case (non me la sento di definirli paesi, paesini o frazioni) che non hanno senso di esistere, è impossibile che qualcuno abbia dsciso di costruire ed abitare qui. Questi posti secondo me non esistono nemmeno sulle mappe, sono solo invenzioni del mio delirio. Ma comunque è tutto pazzesco, è talmente surreale la situazione che sono un misto tra il divertito e il disperato. A tratti mi dico che non me ne frega niente della mia sorte, se sono destinato a perdermi tra questi monti vuol dire che doveva andar così. Ad un tratto sono diventato fatalista ed ora mi sento veramente in un’avventura. Se ci penso bene, sto facendo qualcosa di fantastico.
    Poi ad un tratto senza darmene conto la civiltà si palesa di nuovo, progressivamente e dolcemente. La strada si allarga, si assesta di nuovo, e viene ripopolata da automobilisti. Le tracce umane si fanno sempre più preponderanti. Un cartello alle porte di un paese sancisce l’arrivo a Genova, ma la città non si vede nemmeno all’orizzonte, nessuna traccia nemmeno del mare tanto atteso. Si, ufficialmente è Genova, ma manca ancora tutto un lungo tratto di (liberatoria) discesa su una strada che serpeggia tra piccoli paesi e frazioni portandomi lentamente ma inesorabilmente giù nell’inferno della civiltà. Genova si manifesta per gradi: prima annuso la periferia, poi assaggio un po’ di traffico peri-cittadino, e infine sono catapultato nel caos. Subito rimpiango la durezza della desolazione montuosa, ma sono comunque felice perché anche oggi ce l’ho fatta, a discapito del mio pessimismo. Ho persino il tempo di imboccare la ciclabile che costeggia il lungomare e di raggiungere Boccadasse, e di vedere l’ultimo spiraglio di sole che fende coi suoi raggi nuvole di piombo. È ora di dirigersi all’ostello, la giornata è stata lunga e ho voglia di una doccia e soprattutto di una pizza. Genova è inquietante di sera, o perlomeno la zona in cui mi trovo, vicino alla stazione Brignole: ho la sensazione di essere osservato e seguito, tant’è che uscito dalla pizzeria affretto il passo per arrivare il prima possibile all’ostello. Una volta in camera, scambio due chiacchiere con il mio vicino di letto. Si chiama Vincenzo, è di Napoli ma studia e lavora a Bologna come medico. Mi ha fatto piacere conoscerlo.
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  • Day 3

    Planare

    March 16 in Italy ⋅ ⛅ 15 °C

    Il viaggio vero e proprio è terminato, ma non posso non soffermarmi sulle buone vibrazioni che la terza giornata mi ha trasmesso.
    Mi sono svegliato presto e come un ninja mi sono preparato silenziosamente per non disturbare i due coinquilini. Mentre mangiavo uno snack in cucina ho conosciuto Giulia, una ragazza di Bergamo che è venuta a fare una gita in Liguria. Lei ama camminare, ha fatto tra le altre cose il cammino di Santiago e sa il fatto suo in termini di avventure. È sempre bello conoscere persone che condividono con noi la passione per l’avventura, in qualsiasi sua forma.
    Non faccio in tempo a fare colazione all’ostello, mi devo dirigere verso la stazione dove mi attende il treno per Sanremo. Mentre mi insinuo in certe viuzze della città mi rendo conto che questa Genova sa un po’ di Marsiglia: sporca e pericolosa, bellissima a tratti ma da brividi, si incrociano certi sguardi…
    Il viaggio fila liscio, sono sospeso tra realtà e sogno, mentre il mare scorre fuori dal finestrino, azzurro e potente nel suo silenzio.
    Sbarco a Sanremo, la città con la stazione più bizzarra di tutte: ci sono solo due binari, ma sono separati dall’uscita della stazione da un tunnel chilometrico, ci vogliono almeno 6/7 minuti per percorrerlo tutto.
    La città brulica di gente, è una giornata splendida, ne troppo fredda ne troppo calda. C’è eccessiva confusione però, ed i preparativi per l’arrivo della Milano-Sanremo di certo contribuiscono ad alimentarla. Così opto per una sgambata lungo la ciclabile che costeggia il mare. Lungo il percorso, quasi all’altezza del Poggio, c’è un locale, La Vesca, dove il mio amico Diego mi ha consigliato di fermarmi a fare colazione. Ed effettivamente merita, specialmente per la vista sul mare e su tutta Sanremo. Qui mi rilasso davanti ad un cappuccio ed un croissant, ascoltando un po’ di musica e contemplando la mia serenità. È una mattinata stupenda, il sole mi da vigore e tutto mi sembra meraviglioso.
    Decido poi di fare un sopralluogo al Poggio, per assicurarmi che non abbiano già bloccato il traffico. È ancora tutto tranquillo, ma non mi va di tornare indietro e tuffarmi di nuovo nel fermento della città. In più vedo un sacco di ciclisti che mi sfrecciano di fianco e si buttano sulla salita. Voglio sentirmi parte anche io di questo pellegrinaggio di appassionati, così imbocco a mia volta la salita. E quindi eccomi li, felice, a salire con il mare al mio fianco e la gioia negli occhi. Mi sento importante, e mi sento parte di un qualcosa di indefinito e grande, qualcosa che mi riempie il cuore. Si respira proprio una bella atmosfera: di festa, di primavera, di leggerezza. Più salgo più il mio sorriso si apre e abbraccia ogni cosa.
    In un attimo di rivelazione individuo pure il punto in cui voglio fermarmi a vedere i corridori passare. Piazzo la bici a bordo strada vicino al guard-rail, mangio qualcosa e aspetto. Un’attesa infinita (i corridori non arriveranno prima di 3/4 ore), un’attesa durante la quale si edifica lentamente, quasi impercettibilmente lo spirito della manifestazione. Piano piano la gente trova la propria postazione, i ciclisti amatoriali continuano a salire a decine, chi bello rilassato chi a tutta. Arrivano anche i ragazzi di un fan club di un ciclista a me sconosciuto; ma non importa, perché l’atmosfera si fa sempre più festosa e sale anche un po’ la tensione per l’imminente passaggio della corsa e per il suo esito. I minuti che precedono il passaggio sono pura adrenalina: quando i commentatori annunciano che i corridori hanno attaccato il Poggio, sento il cuore che mi esplode nel petto, non riesco più a contenere questa bellissima tensione. Sono ancora lontani, ma è come se riuscissi già a vederli, a percepirli con tutti gli altri sensi mentre infuriano sulla salita. Poi arrivano veramente ed è un attimo, un istante in cui cerchi di catturare la potenza sprigionata da quella massa quasi uniforme che si sposta. A 30 km/h su due ruote sottili.
    E poi tutto finisce, un’estenuante attesa per vivere pochi secondi di gloria. Non vince nemmeno Pogačar, ma non importa, sono contento, tutto è stato perfetto, ho riscattato definitivamente le fastidiose cattive vibrazioni del primo giorno e mezzo di viaggio.
    Finita la gara, la folla rompe le righe e si disperde giù per la riviera. È ora di andare al camping. La rampa in discesa per raggiungerlo me la ricordo benissimo. Stefano il proprietario invece si ricorda di me, e mi accoglie paternamente. Siamo fuori stagione e posso addirittura scegliere la piazzola dove piantare la tenda, che privilegio! Prima della doccia ho anche il tempo di godermi il tramonto dall’amaca appesa nella piazzola. La vista del mare è sempre emozionante, ti fa sentire piccolo piccolo, ma allo stesso tempo amplifica quella sensazione di aver fatto qualcosa di importante e unico che rimarrà sempre impresso nella tua memoria, con tutto il pacchetto di emozioni annesso. Perché sono le sensazioni, le emozioni soprattutto che si imprimono indelebilmente nel nostro animo. Il mare, specialmente al tramonto, è il tramite attraverso cui posso spingere il mio sguardo all’infinito, abbandonarmi totalmente ad un sentire sincero, senza filtri, senza se e senza ma. Il mare al tramonto è la porta per sognare in grande, e per emozionarsi.
    Dopo la doccia invece mi siedo al tavolino con vista mare che c’è fuori dal bagno, e sto lì a guardare qualcosa d’indefinito e ad aspettare una rivelazione, un segnale, un’emozione, qualsiasi cosa che possa scaldarmi il cuore. E ad un tratto mi rendo conto che c’è un gran frastuono: sono le rane che gracidano in coro da qualche parte. A tratti sembrano rivolgere delle disperate lamentazioni al mare che tutto sa ma che nulla rivela; a tratti invece sembrano rivolgersi alla città, anzi all’umanità intera e prendersene gioco ridendo a crepapelle. Io sono il semplice spettatore di questo meraviglioso spettacolo, e quasi provo tristezza per il fatto che tutti le altre persone laggiù non possano ascoltare queste rane e godersi questo miracolo. Tutto mi appare magico, questo momento è perfetto; è un momento di sintesi.
    In campeggio ci sono anche due ragazzi francesi, una coppia. Come al solito, quando viaggio perdo gran parte delle mie inibizioni, riesco a non sentire il peso della percezione della mia inadeguatezza. E così mi faccio avanti e mi presento. Facciamo due chiacchiere e scopro che sono partiti da Sete, vicino a Montpellier, e in otto mesi vogliono arrivare a Capo Nord. Pazzi! Dei pazzi sono, ma amo il loro progetto e glielo confesso.
    La comunicazione tra viaggiatori è sempre molto semplice (ma non banale), molto immediata e non contaminata da certe sovrastrutture. Si parla in maniera schietta, e si sogna insieme, si viaggia sulle stesse lunghezze d’onda, si instaura subito un certo feeling.
    I ragazzi sono gentilissimi e mi invitano a stare tutti insieme durante la cena. A fine serata ci facciamo anche una foto insieme, un ricordo speciale per me. Una volta ancora provo quel senso di profonda connessione con qualcuno, anche se so che probabilmente non ci si vedrà mai più; ognuno per la sua strada, per la sua vita. Giustamente e dolorosamente. Questo è il bello e il brutto di questi incontri. Che in ogni caso ti arricchiscono più che la maggior parte dei rapporti superficiali che hai quotidianamente con le persone.
    Mi sento felice e penso che la vita è bella, è un bel casino che ti stordisce, ti fa malissimo ma ti regala anche momenti stupendi e densi di significato. Life is pain au chocolat. Buonanotte cari amici. Purtroppo avendo aspettato cosi tanto a scrivere, certe impressioni, certe sensazioni sono sbiadite se non addirittura svanite. Perciò il racconto è un po’ scarico, non è così “impressionista”, ma piu ragionato per la difficoltà di risalire a certi momenti, a certe impressioni appunto.
    Purtroppo stavolta ho pagato la mia pigrizia. Però dai, qualcosa ho scritto e qualcosa rimarrà di questa breve ma intensa fuga.
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