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  • 日2

    Umidi umani

    3月15日, イタリア ⋅ ☁️ 13 °C

    Al risveglio il corpo è abbastanza indolenzito, specialmente la parte bassa della schiena. Considerando che mi aspettano altri 112 km con più di 1600 m di dislivello, le premesse non sono buone. Comunque non mi perdo d’animo, anzi c’è voglia di riscatto dopo una prima giornata vissuta cosi e cosi. Troppe distrazioni, troppe scorie da smaltire forse, troppe sovrastrutture che mi hanno impedito di connettermi al viaggio e di disconnettermi certi vizi che odio, ma che sono così difficili da correggere. Fatto sta che voglio godermi il più possibile questa seconda tappa.
    La colazione riabilita il corpo e lo spirito. Il signore che mi ospita (purtroppo non so il nome) è super gentile e mi lascia un sacco di cose da mangiare, ed insiste per farmi portare via due banane e un pezzo di focaccia che ha comprato apposta per me. Mi consiglia anche un posto dove mangiare lungo il tragitto (il rifugio dei cacciatori a Montebruno).
    Ultimo la preparazione della bici e parto, rinvigorito dal pasto e un po’ più ottimista riguardo alle sorti di questa seconda giornata: continuo a ripetermi che le salite le farò con calma, se ci sarà bisogno la spingerò anche a mano la bici. Non sento nemmeno troppo l’ansia di dover rincorrere il tempo. Arriverò quando arriverò, in ogni caso arriverò. Questo è lo spirito.
    Il sole non si fa desiderare alla partenza, anzi, per essere mattino fa quasi caldo. Dopo due km arrivo a Bobbio e non posso fare a meno di attraversare il ponte del Diavolo e di togliermi la soddisfazione di una foto con la bici e il ponte sullo sfondo. Poi si parte veramente. Onestamente ero un po’ scettico riguardo ai panorami che avrebbe potuto offrirmi questa seconda giornata, svolgendosi per buona parte sulla statale che si snoda lungo la valle. Mi immaginavo già macchine che mi sfrecciavano a pochi centimetri e vista ostacolata dai guard-rail. E invece sono stato smentito subito. La strada non era per niente trafficata e pericolosa e ho potuto godermi i continui sali e scendi, anzi molto scendi e poco sali. L’unica nota negativa: i semafori per via dei lavori lungo la statale; rossi interminabili e ritmo continuamente spezzato, ma fa niente.
    Le uniche due preoccupazioni sono il tempo e le salite. Il tempo perché all’orizzonte sull’Appennino vedo addensarsi nubi. Le salite perché, alla luce della crisi che ho avuto il giorno prima, oggi ho l’ansia da prestazione.
    Per quanto riguarda il tempo, ci ho azzeccato. Superato Montebruno affronto il primo gpm serio, che mi porta a più di 1000 m di quota. Qui piove e c’è pure foschia, gli occhiali si appannano e l’umidità della pioggia penetra fin dentro il mio spirito. Il paesaggio è spettrale, irreale, sembra quasi di essere sospesi in un tempo e in un luogo indefiniti; mi sembra che questa salita, a tratti molto impegnativa ma non impossibile, non porti da nessuna parte. Ed effettivamente in cima non trovo quasi nulla, solo case sporadiche e nemmeno una traccia di umanità. Mi sento strano, mi domando cosa sto facendo, chi me l’ha fatto fare. Mi sento perso, piccolissimo in mezzo a un mondo piovoso. Mi fermo a mangiare al termine del secondo gpm impegnativo, sotto la pioggia e col freddo che paralizza ogni buona sensazione. Vorrei essere a casa, non essere mai partito. Le mani sono congelate e impregnate di umidità. Mi rimetto in sella sperando che la salita duri ancora un po’, di modo da riuscire a scaldarmi. E invece ecco che scollina, e allora giù in mezzo a pioggia e foschia, senza la minima sensibilità alle dita che pinzano sui freni.
    Più procedo più aumenta la sensazione di smarrimento, è un momento difficile in cui devo concentrarmi tantissimo per non ricadere in una crisi di nervi. Non so dove mi trovo, non so dove sto andando, sto solo seguendo una strada tutta rotta in mezzo alle montagne e i boschi. L’atmosfera è straniante, mi sento piccolo piccolo in mezzo al nulla, in un non-luogo che sembra aver cacciato via con la forza ogni forma di vita animale. Qui la natura sembra aver ribadito dopo un’estenuante lotta chi è che comanda, si sta riprendendo i suoi spazi sgretolando lentamente ogni frutto dell’arroganza umana. Ogni tanto raggiungo piccoli agglomerati di case (non me la sento di definirli paesi, paesini o frazioni) che non hanno senso di esistere, è impossibile che qualcuno abbia dsciso di costruire ed abitare qui. Questi posti secondo me non esistono nemmeno sulle mappe, sono solo invenzioni del mio delirio. Ma comunque è tutto pazzesco, è talmente surreale la situazione che sono un misto tra il divertito e il disperato. A tratti mi dico che non me ne frega niente della mia sorte, se sono destinato a perdermi tra questi monti vuol dire che doveva andar così. Ad un tratto sono diventato fatalista ed ora mi sento veramente in un’avventura. Se ci penso bene, sto facendo qualcosa di fantastico.
    Poi ad un tratto senza darmene conto la civiltà si palesa di nuovo, progressivamente e dolcemente. La strada si allarga, si assesta di nuovo, e viene ripopolata da automobilisti. Le tracce umane si fanno sempre più preponderanti. Un cartello alle porte di un paese sancisce l’arrivo a Genova, ma la città non si vede nemmeno all’orizzonte, nessuna traccia nemmeno del mare tanto atteso. Si, ufficialmente è Genova, ma manca ancora tutto un lungo tratto di (liberatoria) discesa su una strada che serpeggia tra piccoli paesi e frazioni portandomi lentamente ma inesorabilmente giù nell’inferno della civiltà. Genova si manifesta per gradi: prima annuso la periferia, poi assaggio un po’ di traffico peri-cittadino, e infine sono catapultato nel caos. Subito rimpiango la durezza della desolazione montuosa, ma sono comunque felice perché anche oggi ce l’ho fatta, a discapito del mio pessimismo. Ho persino il tempo di imboccare la ciclabile che costeggia il lungomare e di raggiungere Boccadasse, e di vedere l’ultimo spiraglio di sole che fende coi suoi raggi nuvole di piombo. È ora di dirigersi all’ostello, la giornata è stata lunga e ho voglia di una doccia e soprattutto di una pizza. Genova è inquietante di sera, o perlomeno la zona in cui mi trovo, vicino alla stazione Brignole: ho la sensazione di essere osservato e seguito, tant’è che uscito dalla pizzeria affretto il passo per arrivare il prima possibile all’ostello. Una volta in camera, scambio due chiacchiere con il mio vicino di letto. Si chiama Vincenzo, è di Napoli ma studia e lavora a Bologna come medico. Mi ha fatto piacere conoscerlo.
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