• Il primo assaggio

    October 9 in Mexico ⋅ 🌧 15 °C

    Aspettavamo di partire da un bel po’. Abbiamo contato giorni e minuti, mentre quest’estate invidiavamo le storie di amici e tutti quanti in ferie. Abbiamo aspettato pazienti.
    E finalmente è il momento di rimettersi in viaggio.
    Siamo sempre io e Paolino che grattiamo via dalla famosa lista un altro paese. Quest’anno il viaggione si é spostato a ovest rispetto a quelli vecchi, esplorando una terra che, come sempre, ci attira per la natura, la sua storia, i paesaggi fuori dal tempo ma soprattutto il cibo.
    Partiamo abbastanza acciaccati, reduci da una settimana in barca con De Poli: io con dolori al petto (ma fortunatamente niente di rotto) Paolo con mal di schiena, entrambi con herpes e sfoghi da stress di due mesi lavorativi molto impegnativi.

    L’aereo parte in orario da Venezia al mattino, scalo veloce a Francoforte dove però facciamo in tempo a farci lardare per due panini e un pretzel e finalmente il volo grosso per Città del Messico.

    Solito volo stile America. Tante ore, tempo per vedersi quattro film e mangiare due pasti e mezzo.
    Uno di noi due era molto felice del cibo servito e non serve indovinare chi.

    Dopo 11 ore sorvoliamo finalmente i cieli messicani. Già dal golfo le nuvole sono tante e più ci si avvicina alla terraferma, più ci rendiamo conto che il tempo a destinazione non sarà dei migliori.
    Atterriamo a Città del Messico sotto la pioggia a quasi l’imbrunire. L’aeroporto é essenziale e un po’ vecchiotto. Passiamo con facilità la dogana (anche qui niente timbro purtroppo), recuperiamo gli zaini e aspettiamo fuori Francisco, il tassista che avevo prenotato gratis grazie alla prenotazione del primo albergo.

    La strada dall’aeroporto al centro città é trafficata, decine di auto che si infilano a destra e a sinistra, un incubo che mi ricorda l’India. La differenza però che noto subito é che si tratta di auto comunque nuove o messe abbastanza bene, molte elettriche. Città del Messico sta sicuramente meglio che forse il resto del paese che mi immaginavo più povero. Man mano oltretutto che ci avviciniamo al centro, notiamo anche come i quartieri e le strade diventino sempre più animati e meno inquietanti. Si, non nascondo a Paolino che alcune strade che incrociamo non vorrei mai farle a piedi la sera. Sarà per le case tutte basse, malridotte, piene di graffiti, quadrate senza tetto, sarà per i lampioni, pochi e solo a luce fredda, che i vicoli prendono veramente un’aria sinistra al calar del sole.
    Come detto però, a un paio di chilometri dal centro la situazione cambia: più luci, persone che camminano ai bordi delle strade, più auto della polizia e ad un tratto cominciano anche i palazzoni.
    Francisco ci lascia sotto all’albergo: un palazzo proprio sulla strada principale che da fuori sembra già bellissimo, non avendo neanche pagato una cifra esorbitante a confronto di altri più lussuosi attorno.

    Facciamo check in, lasciamo gli zaini e saliamo subito all’undicesimo piano del palazzo, che si apre alla nostra vista in una terrazza lounge con vista mozzafiato sulla città. Ci concediamo la nostra prima cerveza mentre ammiriamo il mare di luci che si estendo attorno a Città del Messico, fino ad arrampicarsi sulle montagne circostanti come un’onda luminosa che si infrange sulle pendici.

    Pur avendo smesso di piovere, il vento fresco non perdona, così scendiamo in camera a vestirci un po più pesanti e usciamo in cerca di cibo.
    Proprio accanto all’albergo ci infiliamo in una strada piena di bancarelle di street food e gingilli vari. Premetto, in questi mesi l’ansia di affrontare il viaggio in Messico si é fatta molto sentire: purtroppo leggi in Internet di criminalità, di stare attenti, che agli occhi dei messicani sei quasi un portafoglio con le gambe. Entrare subito così, di sera, in un piccolo mercato notturno, subito mi aveva messo in allerta, cominciando a farmi tastare ogni due secondi le tasche per controllare di avere ancora portafoglio e telefono con me.
    Ma dopo pochi metri la percezione é cambiata all’istante: facce felici, tranquille, gente solamente che cucina tacos o vende maschere da wrestling. Mi calmo subito e mi faccio guidare dal flusso tanto che, arrivati di fronte al ristorante che Paolino aveva visto da maps per la cena, non ci é voluto tanto a cambiare idea e tornare indietro per sedersi ad uno dei tavolini di plastica della prima baracchetta per strada.

    Mai scelta é stata più azzeccata: non appena ci fermiamo davanti ad un chiosco che ci pareva invitante, uno dei camerieri si avvicina subito porgendoci i menu su carta plastificata. Annunciamo che siamo vegetariani pensando subito ad un rifiuto e invece ci accolgono ancora più a braccia aperte proponendoci dei burritos di verdure con ananas, cactus e formaggio. Dolci e caldi, perfetti per una serata fredda, anche se tendevano a distruggersi e lasciare tutto il ripieno nel piatto.
    Quando poi il cameriere poi capisce che siamo italiani, comincia eccitato a riempirci domande su Del Piero e calciatori italiani, attirando anche l’attenzione del cuoco e dei ragazzi che lavorano lì. Dopo pochi minuti ci troviamo con tutti loro seduti attorno al nostro tavolo a chiacchierare sull’Italia, sulla pasta alla bolognese e alla carbonara, sul prezzo degli hotel a Milano e sulle differenze tra la lingua spagnola, messicana ed ecuadoriana.
    Io e Paolino sfoggiamo le poche parole di spagnolo che abbiamo imparato su Duolingo negli scorsi due mesi, superando l’imbarazzo con risate e parole italiane storpiate.
    La nostra prima comida messicana: doveva essere solo un pasto veloce per riassestarci da un lungo volo ed é diventato un momento magico a parlare del più e del meno con il vero popolo messicano, sotto un tendalino in pvc bagnato dal temporale.
    Un inizio vacanza che scorderemo difficilmente.

    Torniamo in camera a tarda sera. Ci laviamo e ci ficchiamo a letto addormentandoci quasi subito col sorriso.
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