• Lorenzo Busi

Mexico Magico

Un viaggio autunnale zaino in spalla nella terra delle nuvole e degli Alebrijes Weiterlesen
  • Beginn der Reise
    9. Oktober 2025

    Il primo assaggio

    9. Oktober in Mexiko ⋅ 🌧 15 °C

    Aspettavamo di partire da un bel po’. Abbiamo contato giorni e minuti, mentre quest’estate invidiavamo le storie di amici e tutti quanti in ferie. Abbiamo aspettato pazienti.
    E finalmente è il momento di rimettersi in viaggio.
    Siamo sempre io e Paolino che grattiamo via dalla famosa lista un altro paese. Quest’anno il viaggione si é spostato a ovest rispetto a quelli vecchi, esplorando una terra che, come sempre, ci attira per la natura, la sua storia, i paesaggi fuori dal tempo ma soprattutto il cibo.
    Partiamo abbastanza acciaccati, reduci da una settimana in barca con De Poli: io con dolori al petto (ma fortunatamente niente di rotto) Paolo con mal di schiena, entrambi con herpes e sfoghi da stress di due mesi lavorativi molto impegnativi.

    L’aereo parte in orario da Venezia al mattino, scalo veloce a Francoforte dove però facciamo in tempo a farci lardare per due panini e un pretzel e finalmente il volo grosso per Città del Messico.

    Solito volo stile America. Tante ore, tempo per vedersi quattro film e mangiare due pasti e mezzo.
    Uno di noi due era molto felice del cibo servito e non serve indovinare chi.

    Dopo 11 ore sorvoliamo finalmente i cieli messicani. Già dal golfo le nuvole sono tante e più ci si avvicina alla terraferma, più ci rendiamo conto che il tempo a destinazione non sarà dei migliori.
    Atterriamo a Città del Messico sotto la pioggia a quasi l’imbrunire. L’aeroporto é essenziale e un po’ vecchiotto. Passiamo con facilità la dogana (anche qui niente timbro purtroppo), recuperiamo gli zaini e aspettiamo fuori Francisco, il tassista che avevo prenotato gratis grazie alla prenotazione del primo albergo.

    La strada dall’aeroporto al centro città é trafficata, decine di auto che si infilano a destra e a sinistra, un incubo che mi ricorda l’India. La differenza però che noto subito é che si tratta di auto comunque nuove o messe abbastanza bene, molte elettriche. Città del Messico sta sicuramente meglio che forse il resto del paese che mi immaginavo più povero. Man mano oltretutto che ci avviciniamo al centro, notiamo anche come i quartieri e le strade diventino sempre più animati e meno inquietanti. Si, non nascondo a Paolino che alcune strade che incrociamo non vorrei mai farle a piedi la sera. Sarà per le case tutte basse, malridotte, piene di graffiti, quadrate senza tetto, sarà per i lampioni, pochi e solo a luce fredda, che i vicoli prendono veramente un’aria sinistra al calar del sole.
    Come detto però, a un paio di chilometri dal centro la situazione cambia: più luci, persone che camminano ai bordi delle strade, più auto della polizia e ad un tratto cominciano anche i palazzoni.
    Francisco ci lascia sotto all’albergo: un palazzo proprio sulla strada principale che da fuori sembra già bellissimo, non avendo neanche pagato una cifra esorbitante a confronto di altri più lussuosi attorno.

    Facciamo check in, lasciamo gli zaini e saliamo subito all’undicesimo piano del palazzo, che si apre alla nostra vista in una terrazza lounge con vista mozzafiato sulla città. Ci concediamo la nostra prima cerveza mentre ammiriamo il mare di luci che si estendo attorno a Città del Messico, fino ad arrampicarsi sulle montagne circostanti come un’onda luminosa che si infrange sulle pendici.

    Pur avendo smesso di piovere, il vento fresco non perdona, così scendiamo in camera a vestirci un po più pesanti e usciamo in cerca di cibo.
    Proprio accanto all’albergo ci infiliamo in una strada piena di bancarelle di street food e gingilli vari. Premetto, in questi mesi l’ansia di affrontare il viaggio in Messico si é fatta molto sentire: purtroppo leggi in Internet di criminalità, di stare attenti, che agli occhi dei messicani sei quasi un portafoglio con le gambe. Entrare subito così, di sera, in un piccolo mercato notturno, subito mi aveva messo in allerta, cominciando a farmi tastare ogni due secondi le tasche per controllare di avere ancora portafoglio e telefono con me.
    Ma dopo pochi metri la percezione é cambiata all’istante: facce felici, tranquille, gente solamente che cucina tacos o vende maschere da wrestling. Mi calmo subito e mi faccio guidare dal flusso tanto che, arrivati di fronte al ristorante che Paolino aveva visto da maps per la cena, non ci é voluto tanto a cambiare idea e tornare indietro per sedersi ad uno dei tavolini di plastica della prima baracchetta per strada.

    Mai scelta é stata più azzeccata: non appena ci fermiamo davanti ad un chiosco che ci pareva invitante, uno dei camerieri si avvicina subito porgendoci i menu su carta plastificata. Annunciamo che siamo vegetariani pensando subito ad un rifiuto e invece ci accolgono ancora più a braccia aperte proponendoci dei burritos di verdure con ananas, cactus e formaggio. Dolci e caldi, perfetti per una serata fredda, anche se tendevano a distruggersi e lasciare tutto il ripieno nel piatto.
    Quando poi il cameriere poi capisce che siamo italiani, comincia eccitato a riempirci domande su Del Piero e calciatori italiani, attirando anche l’attenzione del cuoco e dei ragazzi che lavorano lì. Dopo pochi minuti ci troviamo con tutti loro seduti attorno al nostro tavolo a chiacchierare sull’Italia, sulla pasta alla bolognese e alla carbonara, sul prezzo degli hotel a Milano e sulle differenze tra la lingua spagnola, messicana ed ecuadoriana.
    Io e Paolino sfoggiamo le poche parole di spagnolo che abbiamo imparato su Duolingo negli scorsi due mesi, superando l’imbarazzo con risate e parole italiane storpiate.
    La nostra prima comida messicana: doveva essere solo un pasto veloce per riassestarci da un lungo volo ed é diventato un momento magico a parlare del più e del meno con il vero popolo messicano, sotto un tendalino in pvc bagnato dal temporale.
    Un inizio vacanza che scorderemo difficilmente.

    Torniamo in camera a tarda sera. Ci laviamo e ci ficchiamo a letto addormentandoci quasi subito col sorriso.
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  • Musei

    10. Oktober in Mexiko ⋅ 🌧 20 °C

    La sveglia suona prestissimo, ma ovviamente per il jet lag ho gia gli occhi aperti da un’ora. Ci vestiamo, beviamo un caffè dalla macchinetta in stanza e alle sei spaccate siamo fuori dalla hall dell’albergo, dove ci aspetta elegante e profumato Cesar, il tassista che ci accompagnerà per tutta la giornata in visita di Città del Messico. É un contatto di Isotta, la cugina di Paolo che dieci anni fa per lavoro si é trasferita qui, ha sposato un messicano e ora vive quasi sempre in aereo come rappresentante nel Sud America di una compagnia di macchine dolciarie. Isotta si era altamente raccomandata di non prendere taxi normali, piuttosto uber oppure, appunto, di contattare Cesar che é il suo autista di fiducia per girare “a casa”.
    É stato Cesar stesso a raccomandarsi di cominciare il tour molto presto per cui, ancora a notte fonda, ci ficchiamo nel suo piccolo taxi giallo e sfrecciamo verso il nord della città. Conversiamo in spagnolo con Cesar, o almeno ci proviamo vista l’ora. Da subito ci sembra una persona cordiale e molto volenterosa di spiegare il suo paese agli stranieri in visita. Ci racconta le influenze di Massimiliano D’Asburgo e la moglie Carlotta sulla costruzione della città, di come il primo luogo che andremo a visitare é costante meta di pellegrinaggi, soprattutto a dicembre, il tutto condito con musica mariachi in radio.
    Arriviamo alla Basilica Santa Maria de Guadalupe alle prime luci dell’alba e già si vede più di qualcuno in giro a piedi che va al lavoro. In pochi metri la strada si riempie di persone, bambini e pellegrini. Facciamo due volte il giro del quartiere per trovare parcheggio ma qualsiasi lato delle strade é pieno di autobus di pellegrini venuti da ogni dove, così siamo costretti a portare il taxi giallo nel park sotterraneo. All’uscita veniamo travolti dalla vista di centinaia di pellegrini, se non migliaia, accampati per terra attorno alla basilica. Bambini che ancora dormono avvolti in ponci e giacche colorate, signore anziane che sventolano un pezzo di cartone vicino a barattoli di latta pieni di carboni ardenti, intente a cucinare la colazione, donne e uomini che indossano magliette con la stampa del Papa che ascoltano la messa passata in filodiffusione. Uno spettacolo incredibile.
    Rimaniamo estasiati e ci sentiamo quasi dei pesci fuor d’acqua mentre Cesar ci scorta in mezzo alla folla, camminando tra seggiole di plastica e pellegrini ancora in siesta. Risaliamo la collina accanto per ammirare il sole che sbuca dalle nuvole basse illuminando la metropoli di Città del Messico sullo sfondo della basilica dal tetto dorato.
    Il giro prosegue passando quasi a spintoni tra la folla che canta, batte le mani e grida “viva” rivolti ad un gruppo di preti che intonano musiche di festa dal balcone della basilica. Cesar ci spiega che questo posto é una meta estremamente significativa per tantissimi messicani che seguono la religione di Guadalupe, e sono arrivati in tantissimi per festeggiare domenica la ricorrenza del Dia de la Raza, ovvero l’anniversario della scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Visitiamo l’enorme interno della basilica e ci divertiamo a vedere l’ingegno messicano di mettere dei tapis roulant orizzontali per far sì che la gente non si fermi troppo di fronte alla raffigurazione di Maria al centro della chiesa.
    Torniamo alla macchina stregati da questo spettacolo di comunità e grati di aver potuto assistervi. Sicuramente se non fosse stato per Cesar ci saremmo mai arrivati da soli.
    Non sono neanche le otto e le strade cominciano a riempirsi del traffico mattutino: Cesar ci propone di fare colazione, così ci fermiamo in quello che potremmo definire un Denny’s messicano, con tavolini attorno a sedute in vinile e cameriere simpatiche che ti servono caffè a volontà da grosse caraffe in latta. Ordiniamo enchiladas di formaggio e omelette con verdure, mentre Cesar ci fa provare a moleta: fette di pane dorato al burro con sopra crema di fagioli e formaggio a cui aggiunge il pico de gallo, un misto fatto al momento di dadini di pomodoro, cipolla, lime e Tabasco. Una delizia. Chiudiamo con il pan del muerto: una sorta di panino fritto tipico, che a tratti ricorda il nostro pandoro, ricoperto di zucchero e con la marmellata nel mezzo.
    Capiamo subito che i messicani vanno matti per lo zucchero: lo mettono in quantità mastodontiche dovunque e ogni occasione é buona per ingerirne un po. Non passa tanto infatti quando, raggiunto in macchina l’enorme parco di Chapultepec, Cesar ci offre un mazapàn: un disco di marzapane che i messicani consumano passeggiando. Un’altra bomba di zucchero e arachidi che sicuramente da una botta glicemica e ci permette di affrontare la salita per il castello al centro del parco. Visitiamo il museo nel castello, pieno di opere che raccontano i vari momenti della storia messicana, dalle conquiste spagnole all’indipendenza. Discendiamo la collina e ci dirigiamo al museo di antropologia: un enorme gioiello d’architettura che conserva migliaia di reperti dell’epoca precolombiana. Rimaniamo affascinati dalle sculture in pietra, gli utensili, le figure animali e i geroglifici così particolari e lontani da tutto quello che siamo stati abituati a vedere nel vecchio continente. Testimonianze di popolazioni meravigliose e in grado di creare templi enormi.
    É tutto estremamente bello ma, complice la levataccia e le ore passate in piedi, Paolino comincia ad accusare un forte mal di schiena.
    Decidiamo così che é tempo di comida, anche se stavamo ancora digerendo la colazione mastodontica.

    Cesar così si ributta nel traffico del centro città, continuando a raccontarci le tante stranezze e contraddizioni della metropoli e non solo. “Mehico mahico” (Messico magico): così annuncia con un sorriso ogni volta che assistiamo a macchine che vanno contromano, motorini e pedoni che non rispettano i semafori, gente che si insulta a destra e sinistra, polizia ferma ad ogni angolo non per garantire la sicurezza ma intenta a capire come scucire soldi a cittadini o turisti distratti. Mehico mahico. Un modo quasi rassegnato di accettare con il sorriso una realtà che in una situazione italiana ci avrebbe mandato già ai pazzi.
    Ci imbuchiamo in un piccolo ristorante mentre comincia a piovere fortissimo fuori, tipico finale della stagione dei monsoni.
    Mangiamo tacos vegetariani con formaggio e funghi, mentre Cesar rischia di soffocarsi con una pasta ai gamberi.
    Finiamo ovviamente con una tortilla imbevuta nel dulce de leche super zuccherosa e ci viene insegnato come si beve correttamente la tequila e la sangrita: un intruglio imbevibile piccante al pomodoro che dovrebbe togliere il sapore della prima ma ti lascia con la bocca a fuoco.

    Ci trasciniamo fuori dal ristorante che ormai sono le tre del pomeriggio: il traffico é persistente e il jet lag comincia a farsi sentire. Cesar insiste per portarci ad un altro museo, il Soumaya, che si presenta come una struttura bellissima in mezzo ai palazzoni ma che dentro conserva riproduzioni di statue e quadri classici, molti dei quali italiani. Ci trasciniamo annoiati attraverso i vari piani. Stanchezza, schiena, jet lag e non voglio ammetterlo anche la tequila si fanno sentire.
    Ne usciamo abbastanza in fretta mentre Paolo e Cesar si scrivono con Isotta per vedersi. Cesar, dopo uno dei discorsi sul fatto che a Paolino piacciono i panificati, fa lo splendido e ci porta in un panificio tipico che propone decine di rivisitazioni del pan de muerte e ciambelle super glassate.
    Ci rimettiamo così in macchina per raggiungere il quartiere di Polanco, dove abita Isotta, mentre la città si prepara per la notte.
    La cugina di Paolino ci accoglie in un appartamento bellissimo e accogliente, con tre cani desiderosi di coccole e una ragazza messicana che, Isotta ci spiega, vive lì e li porta in giro tutto il giorno quando lei é fuori per lavoro.
    Scambiamo quattro chiacchiere davanti ad una birra, colmando gli anni in cui i due cugini non si sono visti e ripromettendoci di vederci domani per fare un po di fiesta insieme.

    Usciamo dall’appartamento di Isotta alle otto di sera. Cesar é rientrato a casa a dormire mentre noi prendiamo un Uber che ci porta all’ultima tappa della giornata. Nella lista di musei da vedere oggi ne mancava solo uno: quello di Frida Khalo, ma non siamo riusciti a prendere i biglietti in tempo. Cesar così ci ha dato un’alternativa più “tipica”.

    Arriviamo nella folla di fronte all’arena de México, ci facciamo perquisire ed entriamo a spintoni nel palazzetto dove é appena cominciato uno spettacolo di wrestling. Passiamo così la serata a divertirci guardando donnoni e giganti palestrati in maschera darsi botte per finta e volando in coreografie perfette, stupiti dalla folla scalmanata che urla insulti e canta canzoni per i loro beniamini preferiti.
    Ma il sonno si fa sentire: abbandoniamo l’arena così prima della fine dello spettacolo per ficcarci si di un altro uber e rifugiarci in albergo.

    Una giornata bellissima a contatto con il Messico vero. Grazie Cesar.
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  • Teotihuacan

    11. Oktober in Mexiko ⋅ ⛅ 20 °C

    Altra sveglia presto, di nuovo occhi aperti dalle cinque e mezza. Il jet lag si fa ancora sentire.
    Riusciamo a fare colazione in albergo con vista su Città del Messico e alle sette e mezza Cesar é fuori che ci aspetta con il suo taxi giallo.
    Il programma della giornata é stato cambiato all’ultimo: avremmo dovuto passare la giornata con Isotta, il marito e altri amici a Coyoacán ma, complici le ultime piogge che hanno reso inservibili le famose barchette, abbiamo deciso di usufruire dell’ottima compagnia di Cesar anche oggi e andare verso una meta che avevamo in primis deciso di saltare perché troppo fuori città: le piramidi di Teotihuacan, un sito archeologico azteco enorme a nord di Città del Messico.

    La strada si é lunga, ma le chiacchiere e i racconti di Cesar ci fanno passare il tempo in velocità. Usciamo dal centro e la qualità dei quartieri si abbassa velocemente. Fino ad arrivare a quelle che sembrano proprio delle favelas arrampicate alle pendici delle montagne che circondano la valle di Città del Messico, con tanto di cabinovie sopra le case fatiscenti per spostarsi più velocemente da un barrio all’altro.
    Raggiungiamo il parco di Teotihuacan e ci rendiamo conto di aver fatto di nuovo la scelta giusta ad affidarci a Cesar, che abilmente passa una dopo l’altra le guide turistiche che si mettono in centro strada con l’obiettivo di fermare l’auto e proporsi per accompagnarci alle piramidi, o i “butta dentro” dei ristorantini che urlano dal lato della strada per convincerci a desayunar (fare colazione) nei loro baracchini.
    Paghiamo incredibilmente poco l’entrata al sito, solo 100 pesos (4€) a testa e 70 di parcheggio. In Italia un posto del genere avrebbe chiesto cinque volte tanto.
    Con la guida di Cesar passeggiamo accanto all’enorme piramide del sole, che purtroppo non é più scalabile dopo una festa con deejay e centinaia di persone, a detta sua, epica.
    Siamo praticamente i primi della giornata, i pullman di turisti devono ancora arrivare, pure i messicani stessi stanno ancora disponendo amuleti di ossidiana e cianfrusaglie varie sugli asciugamani per terra.
    Le nuvole corrono in cielo e ogni tanto il sole fa capolino scottandoci il collo e accendendo il verde dell’erba attorno a noi e sulle pietre posate chissà quante centinaia di anni fa dai popoli precolombiani.
    Il paradiso però si sa non dura per sempre e il silenzio sacro viene interrotto ogni tanto dai flauti dei venditori che simulano gufi o peggio, ti fanno trasalire con versi di giaguaro all’improvviso.
    Seguiamo quella che doveva essere la via principale verso la piazza sei sacrifici, con di fronte la più piccola ma infinitamente più bella piramide della luna. Fortunatamente su questa si può salire fino ad un certo livello, ma i gradini sono alti e ripidi e il fiato viene subito a mancare (anche perché Città del Messico sorge su di un altopiano di 2300 metri). Dall’alto della scalinata però il paesaggio é magnifico e si perde fino alle montagne attorno alla valle, illuminate a tratti dal sole e addirittura con qualche mongolfiera qua e là. É impossibile non sedersi qualche minuto e contemplare l’energia che emana quel luogo (oltretutto proprio Isotta ci ha consigliato di vestirci di chiaro per raccogliere il sole in questo punto energetico forte).
    Torniamo alla macchina e ci rimettiamo in strada verso Città del Messico. Ripassiamo ancora meravigliati sotto le cabinovie che collegano le favelas e ci ributtiamo nel traffico del centro.
    Visitiamo al volo il museo sotto al monumento perla rivoluzione mentre Cesar ci aspetta con il taxi in mezzo ad una rotonda con quattro frecce (Mehico Mahico) e ci spostiamo poi nel centro storico, visitando una mostra di arte surrealista nel palazzo delle arti e percorrendo la via pedonale piena di persone che si riversa nel zocalo, la Plaza de la Constitucion. Non prima però di aver assaggiato le esquites: una sorta di zuppa bollente con mais, formaggio, maionese e chili e il bisquet, un panino dolce con formaggio a cui Cesar ci ha invitati ad aggiungere un jalapeño verde, mandando a fuoco le cinque afte che ho in bocca e facendomi nascondere le lacrime mentre camminiamo tra la folla.
    Visitiamo la cattedrale principale con i suoi ori e dipinti, i resti delle antiche piramidi azteche che sorgevano nel centro città prima della conquista spagnola e camminiamo per quartierini pieni di negozi di cianfrusaglie fino all’auto parcheggiata sotto ad un centro commerciale. Chiediamo a Cesar di aspettarci mentre ci laviamo in albergo e usciamo di nuovo per raggiungere questa volta il quartiere Condesa, un po più altolocato, dove la cugina di Paolo Isotta ci aspetta per “pranzare” alle cinque di pomeriggio. Lei, suo marito e il loro migliore amico Ciucio ci spiegano che nel weekend i messicani vanno molto lenti, tanto che la colazione é paragonabile ad un nostro brunch, il pranzo alle quattro di pomeriggio e la cena anche alle undici di sera. Per riuscire a soddisfare i nostri gusti vegetariani, mangiamo in un locale libanese e veniamo colpiti dalla loro veracità: ordinano quasi venti piattini “para compartir” ma divorano tutto in pochissimi minuti. Ovviamente bevono spritz aperol mentre a noi fanno provare il mezqualito, un misto tra mezqual e succo ai frutti rossi. Anche piacevole se non fosse per il bordo del bicchiere decorato di sale e peperoncino che fa di nuovo esplodere dal dolore le mie afte.

    Dopo pranzo/cena ci portano in giro per il quartiere dove Isotta vive, uno spaccato meraviglioso di città pieno di verde e case belle con una strada elicoidale che lo attraversa perché, come mi spiega Ciucio, prima dell’espansione della città, li c’era l’ippodromo.
    Ci fermiamo quasi per caso dentro una delle case più tradizionali del quartiere: una villa bianca con soffitti alti e pavimenti in legno, che era aperta alle visite in occasione di una mostra d’arte.
    Proseguiamo la passeggiata verso il parco del quartiere, pieno di coppie benestanti che portano a spasso i cani e gruppi di salsa che provano le coreografie all’aperto.
    Prendiamo un caffè in una sorta di Starbucks messicano per decidere il da farsi. Pranzare (o cenare) alle cinque del pomeriggio mi ha completamente sbarellato, in più la sveglia presto, i chilometri a piedi, il mezcalito… comincio ad accusare il sonno. Eppure sono appena le sette di sera.
    Così prendiamo l’auto di Ciucio e ci dirigiamo nel quartiere di Palenque, dove saliamo sul rooftop di un palazzo a bere tequila con acqua frizzante e parlare di quanto sarebbe incredibile venire a vivere qui.
    Io però faccio fatica a tenere gli occhi aperti e purtroppo il vento freddo della terrazza non mi aiuta. Decido così di arrendermi alle dieci e mezza, salutare tutti e lasciare Paolino alle loro cure per prendere un Uber, tornare in albergo e svenire non appena appoggio la testa sul cuscino.
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  • Biciclette

    12. Oktober in Mexiko ⋅ ☀️ 24 °C

    Paolino rientra in camera alle due di notte, dopo aver ballato raggaeton con sua cugina e gli altri.
    Apro gli occhi alle sei e mezza stavolta, ma non lo sveglio e intanto sistemo foto.
    Alle otto e mezza saliamo in ristorante per far colazione con calma. Non c’è Cesar che ci aspetta giù questa mattina, é domenica. L’obiettivo era gironzolare un po in autonomia, magari vedere qualche negozio ma senza una vera meta. Dopo due giorni di camminate, musei e piatti tipici avevamo voglia di rallentare un po i ritmi, ma proprio mentre ci godiamo lo yogurt con semini e ananas dolcissimo, ci accorgiamo che sotto di noi, fuori sulla Reforma - la strada principale che attraversa il centro città - non ci sono macchine, solo persone in bicicletta.

    Dopo esserci lavati e preparato lo zaino per partire, decidiamo di buttarci anche noi nella mischia: noleggiamo un paio di biciclette proprio sotto l’hotel e ci mettiamo in strada assieme a centinaia di messicani. C’è chi pedala in tranquillità, chi corre, chi si fa trascinare dai cani in bici o chi va sui pattini con musica raggaeton a tutto volume. É uno scenario surreale: la strada che fino a ieri era piena di macchine che si muovevano a meno di passo d’uomo, ora é un fiume di biciclette e persone che si godono una domenica di sole facendo attività fisica e probabilmente buttando giù tutto lo zucchero di cui si strafogano durante la settimana.

    Percorriamo tutta la Reforma, arrivando al parco di Chapultepec e tornando indietro. Ad ogni semaforo ci sono volontari che fermano i corridori con uno striscione e intrattengono parlando al megafono mentre passano le macchine sulle vie traverse. Siamo leggeri e felici. Finalmente riusciamo a stare in maglietta corta e pantaloncini dopo due giorni di freddo.

    Prima di riportare le bici al noleggio, passiamo dieci minuti nella Ciudadela del centro storico: un quartiere circondato da mura che racchiude un piccolo mercato coperto dove si vendono principalmente souvenir ai turisti e oggetti artigianali. Ci compriamo così una coppia di Alebrijes: piccole statue raffiguranti animali strani pieni di colori sgargianti che, si dice, fungano da spiriti guida per i defunti nel dia de los muertos, proprio come Dante, il cane nel film Pixar Coco.

    Riconsegnamo le biciclette e ci spostiamo pochi metri distante dall’albergo in uno dei posti segnati da Paolino: una taqueria vegana sulla strada. Mangiamo tacos con carne vegana pazzeschi. Finalmente.
    Finora le esperienze culinarie che abbiamo avuto non erano mai state totalmente soddisfacenti: il Messico ha una cucina prevalentemente di carne e toglierla dai tamales o burritos o tacos significa togliere una grossa sostanza. Per quanto puoi aggiungere queso o verdure si perde il gusto forte purtroppo per cui, quando finalmente riusciamo a mettere i denti su qualcosa di sostanzioso ma che segue la nostra dieta, siamo veramente soddisfatti.

    Facciamo al volo una piccola spesa di patatine e acqua e raggiungiamo Cesar che ci aspetta fuori dall’albergo con il suo inseparabile taxi giallo.
    Carichiamo gli zaini e sfrecciamo sulle strade parallele alla Reforma, che continua ad essere percorsa da ciclisti e pedoni tranquilli.
    Passiamo per Tequito, una zona con mercati e bancarelle ad entrambi i lati della strada, frequentato da centinaia di persone. Cesar ci racconta che però è una zona estremamente pericolosa per i gringos. Molte bancarelle vendono merce rubata, se ci si addentra nei vicoli é comunissimo trovare armi e droga e la polizia si tiene ben alla larga.
    Per fortuna noi siamo in macchina nel traffico centrale e osserviamo solamente increduli questi mercato che si estende per oltre un chilometro.

    Arriviamo alle due alla stazione Tapo, dove partirà il nostro autobus in direzione Oaxaca. Salutiamo e ringraziamo Cesar, che ci ha gentilmente accompagnati fino al gate e ci ha regalato due bottiglie di bibite tipiche messicane (ovviamente extra dolci).
    L’ADO Platinum ci accoglie con sedili morbidissimi e recrinabili, televisione e caricatori.
    Lasciamo Città del Messico nel traffico e imbocchiamo l’autostrada in direzione sud, estremamente grati per i giorni intensi e le tante cose viste, ancora più curiosi di scoprire un Messico ancora più autentico a Oaxaca e nelle prossime tappe.

    Attraversiamo boschi e montagne, colline e cactus, mentre il sole scende sotto nuvole bellissime ad ovest ed un cielo terso ad est.

    Mi risveglio che ormai é notte e il bus viaggia su strade semi asfaltate nel buio completo. Tentiamo di riprenderci un attimo prima di arrivare ad Oaxaca, mentre qualche luce di case e lampioni affiora dalle montagne. Ben presto le luci diventano una marea che si arrampicano per le colline, come a Città del Messico.
    Gli ultimi chilometri fino a Oaxaca sono di emozione misto preoccupazione per ciò che troveremo: se sarà il paese colorato che speriamo o un posto desolato e pericoloso.
    Arriviamo in stazione, ci mettiamo gli zaini in spalla e decidiamo di farci a piedi i venti minuti di strada che ci separano dall’albergo. Da prima le strade sono deserte, con qualche motorino che scorre, ma dopo un centinaio di metri si apre un parco pieno di persone, famiglie e coppie che mangiano ai baracchini di tacos, giocano a pallone, parlano. L’ansia scompare e cominciamo veramente a guardarci in giro: Oaxaca sembra proprio un paesino messicano dove il tempo si é fermato, con case basse e muri colorati, murales e statue di Alebrijes. Raggiungiamo l’albergo e subito ci innamoriamo della sua struttura di vecchia casita messicana. L’unica cosa che ci fa strano é la receptionist che ci parla inglese, così come i camerieri del bar dove ceniamo dieci minuti dopo. Forse non é il paesino messicano che credevamo, forse é più meta turistica di quanto credessimo? Lo scopriremo domani.

    Intanto doccia e letto.
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  • Oaxaca

    13. Oktober in Mexiko ⋅ ☁️ 26 °C

    Ci svegliamo che a Oaxaca c’è bel tempo finalmente. Facciamo colazione di huevos revueltos con frijoles e pancake.
    Non abbiamo programmi predefiniti, vogliamo vivere un po Oaxaca lentamente come la vita messicana impone.
    Infatti alle nove e passa del mattino é ancora tutto in risveglio lento: poche persone per strada, nessun turista, i negozi per la maggior parte ancora chiusi. Visitiamo la Cattedrale centrale di Santo Domingo, piena di ornamenti dorati e dettagli, per poi spostarci verso sud sulla strada pedonale principale verso la zona dei mercati coperti.

    Per primo il Mercado Benito Juárez: un labirinto di negozietti di vestiario, souvenirs, accessori in pelle, gli immancabili coloratissimi Alebrijes e il famoso mezcal di Oaxaca. É un misto di colori e odori mentre ci perdiamo tra i vicoli stretti e le bancarelle che lentamente si animano per un’altra giornata di contrattazioni con abitanti e turisti.

    Passiamo poi al Mercado 20 de Noviembre, dedicato esclusivamente al cibo. Qui macellai che espongono strati e strati di carne asada, con addirittura i barbecue per cucinarla e servirla per colazione agli avventori voraci delle dieci del mattino. Frutta, verdura, spezie, liquori, pane: c’è veramente di tutto. Il centro del Mercado poi é composto da piccolissimi ristoranti che servono al banco o su tavolate lunghe e strette, e meseras (cameriere) ad ogni metro che ti sventolano il menu davanti alla faccia elencando più velocemente che possono i piatti a disposizione per convincerti a fermarti da loro.

    Usciamo dai mercados per continuare il giro per il centro. La giornata é splendida e c’è una luce magnifica che illumina ed esalta i colori delle pareti esterne di ogni costruzione bassa a bordo strada, ma non é tanto bello fuori quanto le corti interne che ogni tanto ci capita di sbirciare dalle porte. Decidiamo così di prendere un cappuccino in una delle più belle , che scopriamo essere un piccolo albergo immerso nelle piante.
    Girovaghiamo ancora senza meta godendoci il sole e il caldo, scoprendo che, come a Città del Messico , ogni strada accomuna negozi con lo stesso tema: quello dei tessuti, del caffè e cioccolato, dei negozi di cianfrusaglie come i nostri cinesi, che vendono qualsiasi tipo di decorazione per il dia de muertos e addirittura si portano avanti per Natale.

    Ci ributtiamo dentro ai mercados con l’obiettivo di trovare e provare dei ponchi messicani ma restiamo delusi quando scopriamo che sono molto più grandi e ingombranti (e costosi) di quello che ci aspettavamo. Anche le camicie sono troppo particolari e il pensiero, lo stesso per i cappelli da mariachi, é che sarebbero da comprare e indossare qui in Messico, ma a casa finirebbero in un armadio a prender polvere. Certo che ce ne sono di bellissimi, come i costumi da mariachi.

    É ora di pranzo e il girovagare ci ha messo appetito: insisto per non sederci in un ristorante e provare un’esperienza più local così torniamo dentro il Mercado 20 novembre e ci sediamo ad una delle baracche, non prima di aver controllato se servivano qualcosa anche per noi. Mangiamo così due tlayuda vegetariane: una sorta di tortilla dura e larga, simile al pane carasau sardo, ricoperto di crema di fagioli, funghi, formaggio e verdure.

    Non ce la sentiamo ancora di provare il mole, un intruglio nero composto da più di 20 ingredienti, cioccolato e caffè inclusi, che vediamo vendere in giro per i banchetti del Mercado.

    Decidiamo di tornare in hotel e rilassarci un po nella piscina sul tetto, prendendo il sole e ammirando le nuvole messicane basse che corrono pacifiche.

    Sono ormai le cinque che usciamo di nuovo a passeggiare verso il nord del centro città, lasciandoci i turisti alle spalle ed esplorando le calles piene di casette basse e mura colorate.
    Stiamo cercando un posto per mangiare la sera quando vicino sentiamo della musica, la seguiamo e ci imbattiamo in una parata di danzatrici e figuranti in costume tradizionali, che si muovono a destra e sinistra a tempo suonato da una banda di trombettisti e tamburelli. La situazione è meravigliosa, tutti escono dai negozi, si affacciano dalle terrazze, i turisti impauriscono ogni volta che il capofila lancia in aria un petardo per annunciare il passaggio del convoglio. Ogni cento metri o quando una canzone finisce, si sente qualcuno del gruppo urlare “viva el senor …” o “viva la …qualcosa” e prontamente tutti gli altri in coro “viva!”. È uno spettacolo ipnotico e per come ci è arrivato per caso, decidiamo di seguire la processione, speranzosi di assistere a qualche spettacolo alla fine del percorso. Ma il gruppo non si ferma e per più di un’ora andiamo lo seguiamo su e giù per le vie del centro, addentrandoci anche in quartieri che probabilmente avremmo evitato se fossimo stati da soli. Cala l’imbrunire ma il gruppo imperterrito continua la sua marcia, i suoi balli e la sua musica. A una certa però, ritornati nel centro storico, decidiamo di lasciarli andare. Non sapremo mai quanto sarebbero durati, se ci fosse stata una fine alla parata, pazienza è stato bello finché è durato.

    Torniamo indietro e ci rintaniamo in un ristorantino che Paolino aveva trovato su Google e si era assicurato facesse piatti vegetariani.
    Il menù è confuso ma ci facciamo spiegare dalle gentili cameriere e ordiniamo enchiladas con fagioli e il famoso mole.
    Poco da dire: non ho mai assaggiato qualcosa di più disgustoso. Mi è sembrato come le sette sorelle di Pechino express, ad ogni morso quasi i conati di vomito. Non mi ritengo uno schizzinoso, anzi: se una cosa è così apprezzata e venerata ci sarà un motivo. Ho addirittura assaggiato una cavalletta fritta al Mercado.
    Ma quella roba era veramente immangiabile.
    La cosa mi mette di cattivo umore. Lasciamo lì il piatto e le ragazze alla cassa, dispiaciute per la reazione, insistono per non farcelo pagare.
    Così usciamo con ancora un po di fame e decidiamo di rifarci la bocca in un buco - perché chiamarlo ristorante non è possibile - che serve al banco tacos vegetariani e che avevamo scartato per l’altro.
    Mangio malvolentieri un taco con carne vegetale e coriandolo che in realtà era molto buono e, aspettando che il proprietario andasse al supermercato a comprarci due birre, facciamo amicizia con una coppia che mangiava accanto a noi. Scopriamo che sono australiani in anno sabbatico, che hanno girato l’Europa prima di trasferirsi negli Stati Uniti, scendere in Messico, per finire entro Natale con Colombia, Perù e Argentina.
    Parliamo di viaggi, di vegetarianesimo e scopriamo di essere stati nello stesso meraviglioso ristorantino vegano imbucato tra le colline dell’isola di skye in Scozia.

    Ci salutiamo, augurandoci di rivederci magari un giorno in Australia, dove ci hanno assicurato che le bestie non sono così pericolose come si narra.
    Torniamo in albergo, non prima di aver trangugiato al volo una birra in una terrazza-bar vicino per sfuggire alla loro serata karaoke.

    Abbiamo visto tanto oggi. Tanto da addormentarci subito appena tocchiamo il cuscino.
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  • Monte Albán

    14. Oktober in Mexiko ⋅ ☀️ 25 °C

    Ci svegliamo alle sette. Ispirati da un blog di viaggio letto in Internet, ieri abbiamo prenotato una navetta per raggiungere il Monte Alban, appena fuori città. Facciamo colazione, finiamo di preparare gli zaini e alle otto e dieci siamo fuori dall’hotel, lasciando i bagagli in reception.

    Facciamo un po fatica a trovare l’ufficio dell’agenzia viaggi, nascosta tra le tende dei venditori ambulanti ancora chiuse, ma con un po di pazienza e chiedendo in giro riusciamo a farci portare dal punto di pick-up della navetta. Dopo pochi minuti arriva un furgone grigio tutto ammaccato, saliamo e ci immettiamo nel traffico del centro di Oaxaca. Senza cinture, con una mano sul volante e l’altra al telefono, l’autista è una vera macchietta: strombazza ai taxi, saluta dal finestrino gli amici agli angoli della strada, manda vocali strani, mentre il furgoncino esce dal centro e comincia a inerpicarsi sulle colline attorno alla città. La differenza con il centro si percepisce immediatamente: passiamo quasi subito da case, per quanto antiche, colorate e tenute bene a vere e proprie baracche di cemento, strutture claudicanti, tuk tuk e sporcizia per strada. A tratti mi sembra di essere stato catapultato in India o nel nord del Vietnam. In venti minuti arriviamo alla cima della collina, superando addirittura un posto di blocco della guardia nazionale con tanto di trincea e soldati armati e parcheggiamo sotto il sito archeologico del monte Alban.
    Superiamo tre o quattro guide che si propongono per accompagnarci, prendiamo i biglietti (100 pesos a testa) ed entriamo nel sito.
    Di nuovo, l’aver raggiunto questo posto al mattino presto ci permette di goderci il parco archeologico praticamente da soli. C’è una bellissima luce che illumina le rovine del monte Alban: un parco precolombiano con una piazza gigantesca e diversi templi ai lati. Ascoltiamo di sfuggita la guida che intanto accompagna un gruppo di francesi per scoprire che, per portare la testimonianza avanti, gran parte del sito è stato ricostruito: delle rovine di più di 2000 anni che vediamo di fronte a noi c’è una piccola percentuale. Ma pazienza, è uno spettacolo impressionante comunque.
    Di nuovo, le nuvole messicane dipingono il cielo macchiando il parco di luci e ombre, mentre ci perdiamo nella vista a 360 gradi della regione di Oaxaca. Il blog online parlava del fatto che il sito si sarebbe potuto visitare tranquillamente anche senza guida, che tutto si sarebbe potuto leggere nei cartelli. Abbiamo notato però che, non si sa perché, molti cartelli erano stati rimossi. Forse perché così i turisti erano costretti ad assumere una guida? Può darsi, sta di fatto che sicuramente avere un racconto più ampio sarebbe stato di gran lunga più interessante. Annotato per le prossime visite.

    Rientriamo alle undici in centro, sempre a bordo del furgoncino grigio scassato e del suo autista pazzo, che nel frattempo aveva consegnato del pane ad amici accostando a bordo strada e caricato su due persone per guadagnarsi venti pesos in più sfruttando il viaggio che tanto avrebbe dovuto fare lo stesso.
    È quasi ora di pranzo. Quasi però.
    Decidiamo di ributtarci dentro i mercati coperti per cercare qualche pastina: rimediamo un pan de cazuela, una pagnotta con cioccolato che però Paolino non gradisce del tutto.
    Ci perdiamo per un po tra le bancarelle di Alebrijes, vestiti e mezcal fino a che non decidiamo che era ora di pranzo.

    Camminiamo un po verso ovest, lasciandoci qualche quartiere alle spalle e arriviamo in un ristorantino vegetariano, sempre trovato su Google.
    Mangiamo hamburger di soia con fughi e chimichurri, decisamente più buoni del pane al cioccolato.

    Non c’è molto piu da fare a Oaxaca, e dovevamo impiegare il tempo fino a sera, per poi prendere il bus e lasciare la città.
    Facciamo così due passi verso la zona est del centro. Dapprima un po preoccupato perché di nuovo le condizioni delle case e strade peggioravano di metro in metro, mi sono subito ricreduto appena entrati nel quartiere di Jalatlaco.
    Incrociamo turisti americani alla mano e beviamo un cappuccino in un bar in stile californiano, dopodiché gironzoliamo per vari vicoli pieni di murales meravigliosi e festoni del dia de muertos colorati che svolazzano al vento.

    Torniamo in albergo e ci rilassiamo un po sulle sedie del ristorante nella corte interna fino a tardo pomeriggio, quando ci imponiamo di fare l’ultima vasca per le strade del centro storico in modo da poterci far venire uno straccio di fame.

    Ceniamo in un ristorantino dall’aria tedesca non lontano dall’albergo, per poi definitivamente metterci in spalla gli zaini e rifarci a piedi la strada per la stazione ADO.

    L’autobus parte in orario e ci vuole poco perché entri di nuovo nel buio sconfinato delle strade interne messicane, mentre ci rilassiamo sui sedili reclinabili in attesa di prender sonno e svegliarci domani mattina a San Cristobal de Las Casas.
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  • San Cristobal de las Casas

    15. Oktober in Mexiko ⋅ 🌧 18 °C

    Come prevedevamo, la notte è passata tutt’altro che liscia. Dormire in un pullman, per quanto comodi possano essere i sedili, non é proprio semplice. Soprattutto se l’autista interpreta le curve come drift forsennati, la strada non è proprio una tavola liscia e per un paio di volte ti prende il terrore che aprano il gavone per rubarti tutto o peggio.
    Fatto sta che all’ennesima volta che apro gli occhi non è più buio pesto, non stiamo più attraversando il nulla delle tenebre messicane. Siamo nella giungla. Mi sembra di essere nelle montagne dell’India o a Sa Pa in Vietnam, foreste infinite di alberi e conifere che inondano tutto, a volte perdendosi tra le nuvole basse che inghiottiscono le alte colline.
    Il sole delle sette del mattino fa capolino tra l’umidità, mentre il nostro ADO GL sfreccia accanto a boschi e campi coltivati di pannocchie arrampicati ovunque.
    Da programma dovevamo arrivare a San Cristobal de las Casas alle 5:30 del mattino, già quando siamo partiti l’autista ha annunciato che ci avremmo messo 10 ore (per cui già sforando il preventivato) ma alle otto e mezza abbondanti eravamo ancora in viaggio. I boschi si fanno da parte quando entriamo a Tuxtla Gutierrez, molliamo alcuni passeggeri e ripartiamo.
    Lo scenario attorno a noi é incredibile: sembra di essere veramente in montagna… ma non con la vegetazione che siamo abituati a vedere in montagna.

    Arriviamo alle 9:15 in centro a San Cristobal de las Casas. Quasi quattro ore più tardi del preventivato. Poco male: l’albergo ci aveva già avvisato che la camera non era pronta fino a dopo pranzo e che alla peggio avremmo potuto riposare nella hall. Così ce la prendiamo con calma e, prima comunque di appoggiare gli zaini, facciamo tappa colazione in uno dei tantissimi cafe che notiamo subito esserci in città. Mangiamo due fette di torta al cioccolato mega caloriche e beviamo cioccolata calda “tradizionale” con residui del frutto del cacao (che Paolino non gradisce).

    Portiamo gli zaini in albergo: un boutique hotel ricavato da quella che doveva essere una vecchia casa, con la corte interna formata da un giardino grazioso e le camere attorno.
    Il gentilissimo ragazzo alla reception ci parla in spagnolo lento per farci comprendere tutto e, pazientemente, ci lascia appoggiare gli zaini nella piccola saletta di attesa nel mentre che la camera veniva sistemata.
    Ne approfittiamo per cambiarci, lavarci i denti, radunare tutti i vestiti sporchi e portarli a lavare in una lavanderia proprio dietro l’angolo. 440 pesos per quasi otto chili di roba, consegnati in giornata. Perfetto.

    Usciamo dalla lavanderia e facciamo una passeggiata in centro.

    Notiamo subito la differenza di San Cristobal con Oaxaca: non ci sono più le case con mura colorate, o meglio, non così tante. Le case di san cristobal sembrano più coloniche, sempre ad un piano affacciandosi alla strada, ma con il tetto spiovente in tegole (forse perché qui ci sono periodi dove piove tanto). Le strade sono strette, più di Oaxaca e i marciapiedi molto alti, proprio come a delineare uno stacco tra pedoni e macchine.
    La luce poi è strana: a parte le nuvole che corrono, in generale non dà l’idea di essere un paese che si scalda sotto il sole; al contrario ha l’aria di un tranquillo paesino di montagna (a maggior ragione perché ci troviamo a 2100 metri sul livello del mare).
    La piazza principale ci si presenta calma, senza urla o schiamazzi anche se modestamente piena. Uccelli che cinguettano, musica che si sente da lontano, probabilmente da qualche negozio.
    San Cristobal sembra veramente un posto fuori dal mondo.

    Paolino non sta bene, ha mal di pancia e necessità di andare in bagno. Dopo un Imodium riparatore camminiamo senza meta per le strade del centro, scoprendo una strada più “commerciale” che porta ad un piccolo mercato coperto da tende. Anche qui la differenza si percepisce notando gli oggetti che vengono venduti: non si vedono più Alebrijes, giocattoli in legno o i soliti teschi colorati, ma tessuti, vestiti, camice, ponchi fatti a mano, fili di palline di lana colorate, cappelli e accessori in pelle e tutta una serie di monili in ambra. Arrivando in autobus avevo letto che qui è una tradizione artigianale il lavoro dell’ambra ed effettivamente qualsiasi bancarella ne è provvista.

    Non sono appesi quasi da nessuna parte i festoni in carta del dia de muertos, e si vedono molte più donne girare in abiti tradizionali. Di nuovo, san cristobal sembra essere una cittadina meno turistica e più ferma nel tempo.

    Saliamo la lunga scalinata che porta ad una delle piccole chiesette che svetta sulla città dalle colline circostanti, scoprendo alla fine che era chiusa e la vista sulla valle in parte coperta dagli alberi. Poco male, abbiamo fatto un po di fame.

    Sempre santo google, troviamo piacevolmente tutta una serie di ristoranti vegani e ci infiliamo nel primo più vicino. Mangiamo tacos vegetariani e wrap e ritroviamo una coppia di italiani che casualmente sedeva dietro di noi nel pullman da Oaxaca. Scopriamo che stanno facendo praticamente lo stesso nostro percorso e ci ripromettiamo di ritrovarci, se non stasera a bere qualcosa, probabilmente domani nel canyon del sumidero.

    Nel mentre l’hotel ci avvisa che la stanza é pronta: una camera piccola ma coccola con un letto generoso e la porta finestra che dà direttamente sul giardino.
    Ci laviamo e prendiamo sonno subito.
    Mi risveglio alle cinque e vado a prendere i vestiti pronti in lavanderia, scoprendo che nel frattempo ha iniziato a piovere.
    Ora di andare e tornare che sono inzuppato.. sistemiamo i vestiti e ci mettiamo sotto le coperte a guardare un po di tv, aspettando che spiova un po. Voglia di andare in giro non ce n’è con questo tempo e, come sempre, nessuno ci corre dietro per vedere ogni centimetro di questo posto seppur me ne sia già innamorato.

    Il mal di pancia di Paolino continua a dargli pena. Buscopan e dormire sono la soluzione migliore. Io sistemo foto e guardo wrestling in tv. Fuori la pioggia è cessata, ma uscire a questo punto non conviene.
    Meglio riposare che domani sarà una giornata lunga.
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  • Canyon del Sumidero

    16. Oktober in Mexiko ⋅ ☁️ 23 °C

    Dopo ben 14 ore di sonno, Paolo sta meglio.
    Ci svegliamo presto. Fuori a San Cristobal de las Casas é coperto e freddo, come una normale cittadina montata in autunno. Facciamo colazione veloci, ci prepariamo e usciamo.
    Prima di partire per il Messico abbiamo prenotato su get your guide un tour del canyon del sumidero, un’attrazione turistica imperdibile per chi transita nella regione di Chapas a detta dei blog di viaggio.

    L’appuntamento con lo shuttle per partire é alle otto e mezzo del mattino nella piazza principale di San Cristobal. Usciamo belli bardati e facciamo tappa in un panificio per procurarci il pranzo, rimanendo delusi per il fatto che tutto ciò che vendevano di panificati era solo dolce. Compriamo comunque due pagnotte al formaggio e due fagotti i al cioccolato e marmellata.

    Arriviamo in anticipo in piazza e, mentre aspettiamo, ci godiamo l’ambiente di una cittadina messicana che pian piano si sveglia: donne in abiti tradizionali assieme a bambini piccoli che attendono i piccoli bus popolari scassati, un signore col cappello seduto ad una panchina che insegna a suonare la chitarra ad un cieco, due cani neri che giocano e chiedono coccole a chiunque per strada.

    Il nostro autista non tarda ad arrivare con un piccolo van e, dopo averci legato al polso un braccialetto di carta, ci fa accomodare assieme a due coppie di australiani e cinque ragazzi messicani.
    La strada per uscire da san Cristobal é stretta e trafficata ma presto siamo sulla stessa via che avevamo percorso in bus notturno per arrivare in paese.
    Io e Paolino siamo seduti sui sedili singoli, uno di fronte all’altro, mentre ci sorbiamo le chiacchiere degli australiani e dei messicani che, per tutta la durata del viaggio, non hanno mai smesso di parlare.

    Passiamo il centro di Tuxtla Gutiérrez, sicuramente più commerciale rispetto a San Cristobal ma allo stesso tempo dall’aspetto più povero e trasandato.
    Il piccolo van comincia a salire la montagna appena dietro, affrontando tornanti e curve nella foresta a 100 all’ora costanti.
    Un’ora e venti dopo essere partiti, ci fermiamo al primo spot sopra il canyon del sumidero: una vista bellissima a strapiombo di centinaia di metri sul fiume. C’è molta foschia e subito ci disinteressiamo della vista per concentrarci sul caldo allucinante che é salito - tanto da metterci in maglietta e spezzare i pantaloni - ma soprattutto dalle prime bestie che vediamo in giro: dalle bellissime farfalle arancioni, alle cavallette colorate (chapulites) ai ragni giganti appesi a ragnatele ancora più grandi tra le piante. Per riflesso, apro le salviette antizanzare e ci cospargiamo di citronella: dengue non oggi, grazie.

    Risaliamo sul van e cinque minuti di strada a tutta velocità dopo, arriviamo ad un altro viewpoint sul canyon, questa volta con una vista più larga, un edificio con terrazze in cemento e venditori di souvenir insistenti.

    É il momento di scendere, così il bus ripercorre al contrario la strada che ci aveva portato sopra il canyon e risale la valle da sotto. Un’altra ora a guardare fuori dal finestrino farfalle colorate e una vegetazione fittissima, con anche qualche minuto di sonno, per arrivare all’approdo delle barche.
    Ci vengono dati i salvagenti, mangiamo in velocità i panini (vecchi) comprati al mattino e ci sistemiamo tutti sulla chiatta verde, pilotata da un signore anziano, senza denti e che fa battutine simpatiche alle ragazze australiane in messicano veloce, sapendo che non avrebbero compreso un’acca.

    Il barcone prende velocità e sfreccia all’imbarco del canyon del sumidero.
    Ben presto le pareti attorno a noi si alzano di centinaia di metri, ricoperte da alberi e vegetazione tropicale fittissima. Passiamo sotto una cascata che sbocca dalla roccia e fa un salto di almeno duecento metri, lavandoci tutti e ridendo tantissimo. Fa caldo e la rinfrescata é solo che piacevole. Percorriamo a gran velocità il fiume guardando ovunque a bocca aperta. Il paesaggio é maestoso e magnifico: il sole ogni tanto fa capolino tra i nuvoloni messicani, illuminando fasci di foresta umida e rendendo tutto estremamente magico.
    Facciamo diverse tappe durante il percorso di due ore nel fiume per ammirare le bestie incredibili che popolano il canyon: dalla colonia di cormorani con le ali aperte al sole, agli aironi e i pellicani che seguono pacifici in volo la nostra barca ai coccodrilli che riposano a riva del fiume e una scimmia timida aggrappata ad un albero a cinquanta metri da noi.

    La barca sfreccia impassibile sullo specchio d’acqua marrone del fiume, uscendo dal canyon e percorrendo un tratto di giungla bassa, con il cielo terso e il sole che scotta.
    Ho sempre immaginato così il rio delle amazzoni e ovviamente ora sono ancora più invogliato a vederlo con i miei occhi, bestie permettendo.

    La barca attracca alla fine del fiume, superando bambini che nuotano felici e ragazzi che pescano con lenze a mano.
    Dopo aver dato la mancia al pilota, sbarchiamo a Chiapa de Corzo, dove l’autista del van ci aveva dato appuntamento per le quattro del pomeriggio. Sono appena le due e ovviamente la fame si fa sentire, come il caldo soffocante di una cittadina in puro stile messicano dei film western, con la piazza enorme e piena di persone sedute in siesta su panchine all’ombra dei pochi alberi.
    Trovo per caso su Google una pizzeria appena defilata dalla piazza. Paolino non se lo fa ripetere due volte: dopo giorni di cibo strano e mal di pancia, forse qualcosa che ricorda casa ci serve.
    Troviamo la pizzeria Casagrande in un vicolo, all’interno di quello che palesemente era un garage di un’abitazione. Siamo soli, ma il proprietario e la cuoca sono molto cordiali e ci fanno accomodare. Mangiamo una pizza vegetariana con funghi, peperone, cipolla, aglio (tanto) e queso: una pizza come tante mangiate in America, ma in una situazione così, in un buco a lato di una stradina puramente messicana, con l’aria ferma e calda, il sole e il cielo terso, una cumbia alla radio, é la pizza più buona del mondo.

    Paghiamo soddisfatti e diamo la mancia ai pizzaioli cordiali e raggiungiamo di nuovo la piazza di Chiapa, illuminata dal sole pomeridiano e con il silenzio della siesta interrotta solo dai clacson dei taxi che corrono a destra e a sinistra in cerca di clienti.
    Incrociamo anche la coppia di italiani che avevamo conosciuto ieri a San Cristobal e che avevamo salutato al canyon del sumidero. Loro avevano acquistato lo stesso tour da un altro operatore, ma praticamente hanno fatto il nostro stesso percorso, spesso incrociando anche la nostra barca.

    Scambiamo quattro chiacchiere su quanto ci era piaciuta l’esperienza e ci ripromettiamo di rivederci a San Cristobal per bere una cosa la sera.

    Aspettiamo così le quattro, seduti su una panchina all’ombra, finché non veniamo raggiungi dagli australiani e poi dai messicani.
    Ci ributtiamo nel van e, sempre a gran velocità, ripercorriamo la strada del ritorno, salendo su per le montagne ed entrando pian piano nelle nuvole che vedevamo da sotto.
    San Cristobal ci riaccoglie sotto una pioggerella leggera, e nuvole che corrono nel cielo al tramonto. Scendiamo dal van in piazza centrale notando una piccola folla che si era riunita per assistere ad uno spettacolo di danzatrici tradizionali messicane. Non facciamo in tempo ad avvicinarci per guardare qualche coreografia che la pioggia si intensifica e tutti si mettono al riparo, interrompendo lo spettacolo.
    Capiamo che non sarebbe cambiato nulla per un po, così facciamo un salto in farmacia a recuperare la crema solare che ahinoi sarebbe stata utile oggi. La pioggia si indebolisce e decidiamo di passeggiare un po per la via dei ristoranti, mentre un tramonto arancione fuoco illumina le nuvole piovose e la strada ciottolata. Saliamo la collina ad est del centro per vedere l’ultima piccola chiesa, scoprendo una messa in corso.

    Nel frattempo Paolo si sta scrivendo con gli italiani di prima e decidiamo di cenare assieme. Torniamo così in albergo a lavarci e alle sette e mezza ci incontriamo con Giulia e Alessandro, due ragazzi di Varese appassionati anche loro di viaggi in giro per il mondo. Passiamo una bella serata a raccontarci di esperienze in viaggio, ma anche di cucina, lavoro e vita. Beviamo vino bianco e proviamo una zuppa di pomodoro con, ahimè, mole.

    Ci spostiamo nella strada dei bar, per berci un’ultima pina colada troppo dolce e ci salutiamo quando sono ormai le undici passate.
    Forse ci re-incroceremo a Holbox, quando noi arriveremo e loro ripartiranno, oppure in Italia. É stato bello condividere per una volta le esperienze del viaggio con altri, ci fa sentire meno soli e che, in fondo, stiamo sempre facendo la cosa giusta a investire ciò che abbiamo per vedere il mondo.

    Torniamo in camera, prepariamo gli zaini e dritti a letto a mezzanotte.
    La sveglia di domani sarà la più difficile del viaggio.
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  • La strada per Palenque

    17. Oktober in Mexiko ⋅ ⛅ 25 °C

    Sembra di aver appena chiuso gli occhi quando alle 3:05 suona la sveglia.
    Ci vestiamo, chiudiamo gli zaini che diligentemente avevamo preparato la sera, lasciamo le chiavi della stanza al guardiano notturno dell’albergo e aspettiamo nella hall dell’hotel, silenziosi e rincoglioniti.
    Alle 3:40 arriva il van che ieri ci aveva portato al canyon del sumidero, con lo stesso autista pazzo.
    Carichiamo gli zaini nel vano posteriore e ci piazziamo in ultima fila, dove ieri c’erano i ragazzi messicani che non smettevano un secondo di parlare. Purtroppo il mio posto singolo con lo spazio per le gambe é già preso da un tedesco alto addirittura più di me che avevamo già incrociato assieme alla fidanzata nel bus da Oaxaca.
    Il van sfreccia per le strade umide e vuote di San Cristobal ed esce dal centro, non prima di aver caricato altre tre ragazze spagnole e un classico backpacker (probabilmente brasiliano o giù di lì) uscito da un’ostello con in spalla uno zaino grande un terzo dei nostri.

    Manuel l’autista, una volta raccolti tutti, annuncia che ci metteremo circa due ore e mezza prima di fermarci a colazione e di prepararsi perché la strada che avremmo affrontato contava più di 900 curve e 240 rallentatori.
    Lì abbiamo sentiti tutti. Dal primo all’ultimo.
    Manuel si riconferma il pazzo scatenato alla guida, affrontando curve a 100 all’ora nel buio più totale e quasi inchiodando non appena vede un rallentatore. In più il van vibra da morire, i posti sono stretti e c’è un perenne odore di benzina nell’aria.
    Dormire é letteralmente impossibile.
    Chiudiamo gli occhi a turno, sperando di prendere sonno per i dieci/venti secondi di assurda velocità che separano un dosso dall’altro.
    Il van corre per strade che sa solo lui, evitando quando possibile buche o pezzi di asfalto rovinati.

    Il cielo alle cinque e mezzo comincia a schiarire, rivelando la foresta pluviale attorno a noi immersa nella nebbia, mentre da lontano il sole che sorge colora di rosso le silhouette delle montagne alla nostra destra.

    Smetto di provarci a dormire, tanto era più una sofferenza che altro. Buttando lo sguardo dal finestrino comincio a intravedere le baracche sorgere timide qua e là in mezzo ad una giungla rigogliosa e imponente.
    Passiamo piccoli villaggi estremamente malridotti, davanti a noi camioncini che trasportano persone, a volte famiglie con bambini nel cassone coperto dietro.
    Rivedo le baracche fatte di pezzi di legno, lamiere, pochi mattoni sgangherati che tanto mi avevano colpito in India. Mi domando quindi se sia per un discorso di povertà che questi posti siano così in sfacelo o perché a queste latitudini la natura é talmente prorompente e invasiva che neanche ci provano a tenere le costruzioni decenti.. o semplicemente entrambe le cose.

    Certo ancora una volta passare di sfuggita in mezzo a queste situazioni é l’ennesimo invito a ricalibrarmi non su quanto siamo fortunati in Europa ma su quanto diamo per scontato e ci roviniamo vita e fegato dietro dettagli insignificanti.

    Mentre mi rendo conto di fare come al solito i miei grandi pensieri sulla vita, il van gira bruscamente a destra, entrando in un piccolo parcheggio sterrato.
    Manuel se ne esce con un “desayuno (colazione). Ci consiglio di farla perché la prossima volta che mangerete sarà alle quattro del pomeriggio”.
    Eravamo preparati. Il voucher del viaggio verso Palenque diceva che ci sarebbero state due pause pasti ma non era obbligatorio mangiare: se uno voleva poteva portarsi il cibo. E così noi avevamo fatto: la sera prima avevamo comprato biscotti e succo di frutta, messi in un sacchetto pronti per essere tirati fuori e farci la nostra piccola colazione.
    Ma no. Viene ad aprirci il portellone una sorta di parcheggiatore, invitandoci con lo sguardo a scendere. Entriamo in una sorta di ristorante coperto, dove camerieri in mascherina ci fissano e aspettano che paghiamo 120 pesos a testa per fare colazione a buffet da loro.
    Intimiditi, non ce la sentiamo di fare i contrari, anche perché il resto della gente che era in van con noi ha tirato fuori subito i soldi e si stava già servendo al banco dei salati.

    Incattivito dal poco dormire, infastidito dalla forzatura di questi trucchi meschini, alterato dalla frittata di uova strapazzate servita con il prosciutto e quando chiedo se me ne fanno un po senza non mi rispondono neanche, faccio veramente fatica ad avere gli stessi pensieri positivi di dieci minuti prima, mentre Paolino che è più saggio di me se la ride a vedermi fumare.
    Fortunatamente ho imparato a sbollire velocemente. Lasciamo due pesos di mancia per ripicca verso una colazione terribile e rimontiamo sul van.

    Il sole intanto si é alzato tra le montagne, mentre corriamo smarcando una curva dopo l’altra e attraversando villaggetti pieni di bambini a bordo strada pronti per la scuola, donne che grigliano carne o pannocchie affacciate alla strada e che ti invitano a comprare, alberi di banane in frutto, chiesette in muratura lasciate incompiute.

    Sono ormai le 9 quando arriviamo nel parco nazionale di Agua Azul. Subito ci spogliamo di felpe e braghe lunghe: fa caldo torrido e il sole filtra tra le foglie nel sotto giungla tropicale.
    A pochi passi dal parcheggio intravediamo le famose cascate mentre a riva tutta una serie di baracchini in via di allestimento. Risaliamo i vari ponticelli e scalinate in pietra che costeggiano queste cascate enormi, rese ancora più affascinanti dalla luce del mattino. Come purtroppo ogni cosa qui in Messico, anche questa meraviglia naturale è diventata una forte meta turistica, tanto da influire pesantemente nel villaggetto accanto perché tutti, di qualsiasi età sono impegnati a vendere ninnoli, magliette, souvenir e noci di cocco “potenziate” con chili.
    Rimaniamo incantati dalle piante attorno a noi, tanto da riconoscerne alcune che abbiamo a casa… in versione gigante.

    Dalle informazioni sul tour c’era scritto che volendo si poteva nuotare sulle risacche delle cascate, così ci eravamo ficcati in zaino prima di partire costume e asciugamano.
    Saliamo più in alto alla ricerca di un posto dove immergermi ma più andavamo avanti, più l’idea non mi piaceva più di tanto. In aggiunta, comincia a seguirci un ragazzo che, facendo il gesto del nuoto, ci vuole accompagnare a tutti i costi in un posto bellissimo dove poterci fotografare e chiedere la solita propina (mancia). Questo mi toglie completamente la voglia di entrare in acqua, per cui giriamo i tacchi, mandiamo via il ragazzo visibilmente deluso e ritorniamo sui nostri passi.

    Ci fermiamo ad ammirare il panorama seduti su una panchina, giusto di fronte uno spot dove era consentito fare il bagno.
    Continuavo a pensarci se farlo o no e alla fine mi sono deciso: meglio togliersi lo sfizio che vivere poi la giornata con il rimpianto. Per cui mi cambio il costume in uno dei baños (a 10 pesos mannaggia) e mi faccio una nuotatina di fronte a Paolino divertito. A ruota mi segue anche una ragazza tedesca e uno spagnolo di un altro gruppo di turisti.
    L’acqua é fresca ma non impossibile. Torbida, ma non troppo alta e c’è una corda a cui aggrapparsi per non venire trascinati dalla corrente.

    Esco, mi asciugo e siamo pronti per rimetterci in viaggio nel van, che scanna per i villaggetti della giungla, quasi inchiodando ogni volta che trova un rallentatore in cemento.

    Un’ora dopo ci fermiamo ancora, questa volta la visita è più breve. Ci avviciniamo alla cascata di Misol Ha: un bestione d’acqua alto 45 metri che si infrange in un laghetto circondato dalla foresta tropicale e niente ha da invidiare alle cascate islandesi che tanto abbiamo adorato.
    Facciamo foto e passiamo sotto la cascata, lavandoci completamente. Prendiamo qualche rametto di potos giganti caduti a terra, vediamo se a casa riusciremo a farli rinascere.

    A Chiapas tutto costa per i turisti. Anche i bagni. Ci stiamo abituando all’idea che più ci avviciniamo allo Yucatàn, più dovremmo un po dire addio al Messico autentico e non troppo turistico che abbiamo adorato a Oaxaca e San Cris.

    Una sola mezz’ora di van in mezzo alla giungla ed eccoci alla meta finale del giorno: Palenque.

    Me l’aspettavo diversa, sono sincero. Abituato alle bellissime cittadine viste finora, Palenque é una sola cosa: traffico.
    Strade brutte, caos, lavori.
    Il van imbocca una stradina che si allontana dal centro e si infila nella giungla. Dopo pochi minuti arriviamo al parco archeologico, il vero motivo della nostra lunga traversata di oggi.
    Manuel si ferma al parcheggio e ci propone una guida, così concordiamo con la coppia di tedeschi e il guayano (almeno così credo abbia detto) di fare l’esperienza completa di due ore, con tanto di esplorazione della giungla alla ricerca di animali, il tutto per 2260 pesos.
    Così ci affidiamo a Pedro, una guida simpatica che ci accompagna per le rovine di Palenque, raccontandoci della loro costruzione per il re Maya Pakal, la sua tomba incredibilmente pesante e la sua età incredibilmente avanzata, come hanno costruito i palazzi e le torri del sacrificio in posizioni strategiche perche il sole e la luna, nei solstizi, si posizionassero attraverso di loro.
    Fa caldo, caldissimo, umido. Passare dai 2000 metri freddi di San Cristobal ai 60 di Palenque é veramente spossante.
    Pedro ci fa sedere all’ombra per raccontarci la leggenda del re astronauta, dovuta all’interpretazione creativa negli anni ‘70 del bassorilievo trovato sulla sua tomba e del calendario Maya, estremamente preciso e che avrebbe previsto un riassesto nel 2012 come il nostro anno bisestile.
    Esploriamo ancora il sito arrampicandoci su una delle piramidi e ammirando come i Maya fossero riusciti a costruire uno spazio così bello attorno ad una foresta pluviale rigogliosa e magnifica.

    É tempo di entrare quindi nel verde appena dietro le rovine. Ci facciamo strada tra liane e alberi, l’umidità è soffocante e la luce del pomeriggio fa fatica a filtrare tra le foglie di alberi altissimi e piante che noi a casa possiamo solo immaginarci. Sentiamo a distanza le scimmie urlatrici, fa quasi paura il loro verso. Pedro ci dice che non attaccano, marcano solo il territorio.
    É ora però di uscire dalla foresta. Manuel ci viene a recuperare con il van e ci fa il favore di accompagnarci in albergo.
    Il tour prevedeva anche la possibilità di pranzare, ma dopo l’esperienza della colazione preferiamo saltare. L’albergo è carino, con la piscina.
    Ci rilassiamo in acqua una mezz’ora, doccia e usciamo per cena.
    Non ci fidiamo a girare per il centro brutto di Palenque, fortunatamente ci sono ristoranti proprio accanto all’hotel che propongono alternative veggie.
    Mangiamo burritos con patatine fritte, ma siamo talmente stanchi che anche 100 metri di camminata verso il centro ci pesano.
    Torniamo in camera e il tempo di sistemare gli zaini per domani che stiamo già dormendo. Alle 9:30.
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  • Verso Merida

    18. Oktober in Mexiko ⋅ ⛅ 31 °C

    Dormiamo di gusto. 9 o 10 ore almeno.
    Ci svegliamo alle 7. Colazione con huevos revueltos, succo di melone, ci prepariamo e alle 8:10 siamo alla stazione ADO, poco lontana dall’hotel.

    La giornata passerà veramente lenta. Dobbiamo affrontare nove ore di bus fino a Merida, la nostra prima tappa nello Yucatan.
    Assieme a noi un gruppo di britannici in viaggio stile Weroad particolarmente chiassosi, ma la guida palesemente messicana si rivela utile perché sembra conoscere il percorso del bus molto bene.

    Durante la mattina veniamo fermati due volte dalla guardia repubblicana che ci controlla i passaporti. Sicuramente è sconfortevole, ma trasmette in fondo un senso di sicurezza.

    Entriamo nella regione di Campeche e il bus si ferma per pranzo in un ristorante per turisti fatto apposta per questa tratta.
    Un posto però che non accetta “tarheta” e ci sono rimasti solo 500 pesos in banconota dopo aver pagato la guida ieri a Palenque. Più che sufficienti per comprare un pacco di patatine e una coca, ma alla cassa non avevano il resto. Stiamo per desistere quando vediamo che tutti gli inglesi pagano con piccolo taglio, così fortunatamente riusciamo a comprare il pranzo.

    Ripartiamo, attraversando velocemente pianure verdi, coltivazioni di palme, alberi pluviali, ma anche piccoli villaggi di baracche, immersi nella natura.

    E finalmente raggiungiamo il mare. Costeggiamo tutta la costa di Campeche per poi rientrare, passare il confine con lo Yucatan e, infine, arrivare a Merida al tramonto.

    Di questa traversata ricorderò le nuvole che a grappoli hanno colorato il cielo blu come pois bianchi. Come hanno scaricato scrosciate d’acqua e subito dopo il sole. Come si arrampicano nell’atmosfera creando montagne bianche dipinte di arancione e giallo dal sole al tramonto.

    Mérida ci accoglie sotto la pioggia. Teniamo i sacconi sopra gli zaini anche quando in realtà non si sentono neanche piu le gocce. Camminiamo verso l’albergo in quella che sembra di nuovo una cittadina non diversa da Palenque: traffico, marciapiedi stretti, muri scritti scrostati e tralicci della corrente pieni di cavi penzolanti.
    Facciamo check in, una doccia al volo e usciamo in esplorazione.
    Fortunatamente il primo impatto era solo per le vie fuori dal centro storico: appena ci avviciniamo alla piazza principale cominciano ad apparire negozi, ristoranti, bar nelle corti interne, nascoste da grandi porte di legno massiccio. La piazza principale é grande e piena di alberi ma soprattutto di gente.
    La attraversiamo e proseguiamo verso un ristorante vegano che Paolino come al solito si era segnato ma lo troviamo in chiusura. Ripieghiamo così su una scelta più centrale, che ci ha confermato che per i turisti viene dato un menu maggiorato ma mangiamo bene.
    Chiudiamo la serata passeggiando per la via dei negozi che ricorda tanto le nostre città di mare e ci fermiamo a bere un paio di margaritas in una corte piena di ristorantini e bar, mentre un gruppo suona musica salsa dal vivo.
    Rientriamo alle undici cotti. Anche se abbiamo visto poco oggi é stata una giornata pesante.
    Però siamo nello Yucatan. Comincia la fase finale del nostro viaggio.
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  • La città gialla

    20. Oktober in Mexiko ⋅ ⛅ 26 °C

    Non avevamo un programma preciso per il tempo che avremmo trascorso a Mérida.
    Sapevamo che, in base a come ci saremmo sentiti, avremmo scelto se visitare Uxmal, un altro sito archeologico Maya oppure Izamal, una piccola cittadina colonica molto apprezzata sulle guide e ancora poco affollata dal turismo di massa.

    Non si é mai stufi di vedere rovine, ma dopo l’esperienza di Palenque abbiamo bisogno di rifarci un po gli occhi con qualcosa che ci ricordasse il Messico classico che avevamo adorato a Oaxaca e San Cris, così optiamo per Izamal.
    Ora: il problema è come raggiungerla, visto che si trova a più di un’ora e mezza di strada dal centro.

    C’erano vari tour guidati da Mérida su get you guide, ma tutti comprendevano altre tappe portando via tutta la giornata, e sinceramente volevamo scoprire le cose con i nostri tempi.
    Così, rovistando tra i blog online, scopriamo che esistono anche i bus a “medio raggio”, i cosiddetti Colectivos.
    Così ci informiamo sulla stazione di partenza, ci svegliamo di buon ora e attraversiamo il centro di Mérida per raggiungerla. Passiamo la piazza principale, ancora più lenta del solito perché è domenica e attraversiamo la zona dei mercati più poveri della città. Certo, fa sempre un certo che camminare nelle zone più sporche e disagiate, viene quasi naturale ormai controllarsi le tasche ogni dieci metri, ma dopo dieci giorni in Messico ti accorgi che le persone ormai sono abituate ai gringos, c’è polizia ovunque e se rivolgi un sorriso ti sorridono di ricambio. La preoccupazione sulla sicurezza giorno dopo giorno sta svanendo. Non significa andarsele a cercare, ma sicuramente giriamo un po più sereni anche nelle zone non prettamente turistiche.

    Raggiungiamo la stazione dei colectivos, paghiamo 40 pesos a testa la corsa e aspettiamo per qualche minuto il bus per Izamal assieme ai, come odio definirli, locals.
    Il viaggio é piacevole e veloce, gran parte in autostrada. Attraversiamo qualche villaggio giusto per un paio di fermate intermedie e già si ha la sensazione di essere tornati alle situazioni coloniche da film western, solamente che invece che esserci deserto attorno, c’è una foresta pluviale bassa e a perdita d’occhio.

    Arriviamo a metà mattina a Izamal e già ci strabiliamo della bellissima luce attorno a noi… e al caldo. Ci sono 32 gradi ma umidi e possono solo che crescere.
    Decidiamo di raffrescarci con un frappé freddo al cioccolato e caramello in un piccolo bar, per poi addentrarci nella città gialla.
    Ogni muro, scopriamo leggendo su Internet, é stato per legge dipinto di giallo o bianco per un editto del sindaco negli anni 60, per rendere la cittadina più turistica.
    Il centro di Izamal é a cento metri dalla fermata del bus: piccolo ma già ce ne innamoriamo. Le persone sono vestite di bianco per la domenica, bandierine per il dia des muertos appese che svolazzano alla brezza, danzando con le nuvole bianche che coprono sempre a pois il cielo azzurro.

    Una cittadina ferma nel tempo, con il vecchio mercato pieno di odori e suoni, cavalli in carrozza per i pochi turisti del mattino, una musica mariachi nell’aria.

    Visitiamo il convento di San Antonio da Padova, enorme e giallo, mentre nella chiesa principale c’è una funzione piena di fiori.
    Leggiamo che il convento e tante delle costruzioni del paese sono state realizzate utilizzando le pietre del villaggio Maya su cui sorge, infatti non lontano troviamo una piccola piramide.
    Entrata gratis, si può scalare. Saliamo i gradini in pietra sotto il sole che picchia, meravigliandoci ancora una volta della vista a 360 gradi di pura foresta tropicale che si perde fino all’orizzonte.

    Scendiamo e rientriamo nel piccolo centro.
    Non c’è più tanto da vedere, ma al tempo stesso potremmo rimanere a fare foto all’infinito.
    Avremmo dovuto riprendere il pullman all’una per tornare a Mérida per poterci concedere qualche ora per visitarla a dovere, ma non vogliamo fare le cose di fretta anzi, questo posto quasi ti costringe a rallentare i ritmi e goderti la vita.
    Decidiamo allora di andare a pranzo e prendere eventualmente il bus successivo.

    Troviamo posto in una caffetteria, dentro una piccola corte con una fontana piena di carpe colorate. Mangiamo club sandwich e quesadillas vegetariane, godendoci il fresco dei ventilatori a palla.

    Quando arriva però il momento di riprendere il bus ci accorgiamo che la stazione è strapiena di gente in partenza per Mérida.
    Ci mettiamo in coda, speranzosi che la situazione fosse normale e che di domenica fossero previste più corse… ma no. Il bus delle due e mezza pieno come un uovo parte senza di noi. Rimaniamo così mezz’ora in coda, fermi in piedi, al caldo in mezzo al vero pueblo messicano.
    Fortunatamente alle tre arriva un nuovo bus ma le persone davanti a noi sono sufficienti per riempire tutti i posti a sedere. Ci si presenta una scelta: aspettare di nuovo in coda il bus delle cinque o stare in piedi.
    Ci ficchiamo così nel corridoio del pullman e trascorriamo la successiva ora e mezza a sopportare il caldo, i pianti dei bambini, la musica trap messicana a tutto volume dai tamarri dietro di noi e la puzza di patatine fritte al chili mangiate dalla vecchia accanto.
    Siamo talmente storditi e stressati che ad una certa inforco le cuffiette e cominciamo ad ascoltarci Giorgia, pur di isolarci da tutto quel rumore molesto.

    Arriviamo finalmente a Mérida che ormai é il tramonto.
    Vorrei fare un giro del centro, giusto per togliermi lo sfizio di averla visitata anche di giorno, ma siamo stufi, stanchi e sudati.
    Torniamo in albergo. Doccia, ci cambiamo e riusciamo.
    Mangiamo burger e tacos veg bevendo kombucha in un posticino che Paolo aveva trovato già la sera prima ma era chiuso.

    Gironzoliamo per la piazza di Mérida, convincendoci a provare una marquesita: una sorta di crêpes croccante arrotolata con ripieno alla Nutella.

    Torniamo infine nel bar di ieri, giusto per bere un cocktail (all’agave, cattivo) ed assistere ad una rappresentazione di balli regionali messicani, per poi trascinarci presto a nanna e chiudere una bella giornata, al netto dell’esperienza “local”.
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  • Valladolid

    20. Oktober in Mexiko ⋅ 🌙 24 °C

    Ci svegliamo a Mérida con tutta calma. Colazione in albergo, prepariamo gli zaini e improvvisiamo una camminata in centro, giusto per dare il contentino ad una città che non ci ha lasciato moltissimo.
    Ma dopo un po il peso sulla schiena si sente, così ci dirigiamo alla stazione ADO, la stessa dove eravamo arrivati due giorni fa.
    Il bus è alle 9:50 del mattino, ormai siamo dei pro nel prenderlo. Ficchiamo gli zaini nei sacchi antipioggia e li carichiamo in stiva.
    Il bus parte ma l’aria condizionata non sembra funzionare, ci saranno 29/30 gradi fuori e sicuramente dentro quel coso la situazione non era ottimale, ma tanto sarebbe stato per un paio d’ore.
    Ma non per l’autista che, appena usciti sul raccordo fuori città, decide di fare retro front e tornare alla stazione dei bus, con l’obiettivo di farsi cambiare il mezzo con uno con l’aria condizionata.
    Morale della favola, perdiamo più di un’ora in tutto questo. Ma più che imprecare non possiamo fare molto. Fortunatamente non c’è nulla o nessuno che ci aspetta a Valladolid e non avevamo programmi precisi per cui la prendiamo con filosofia, cambiamo bus e ripartiamo con uno decisamente più fresco.
    Il viaggio è monotono, con la vista fuori al 99% del tempo sulla distesa di alberi tropicali , facendoci sentire per l’ennesima volta molto piccoli.

    Arriviamo a Valladolid che é già l’una del pomeriggio. Ci facciamo dieci minuti di camminata con gli zaini sotto il sole caldo verso l’albergo, una bellissima struttura piena di piante.

    Purtroppo la camera non è ancora pronta, così molliamo gli zaini in reception e facciamo una passeggiata nel centro città.
    Un po anonimo, sembra la copia di Mérida: strade strette piene di traffico, motorini, costeggiate da negozietti di vestiti a poco prezzo, souvenir, “cinesate”. Il sòcalo principale molto simile a tanti che abbiamo visto, la chiesa senza lodi.
    Mangiamo un ottimo panino al pesto e uno con l’humus in un piccolo cafe consigliato dalla mia amica Alice e riprendiamo la nostra camminata in giro per Valladolid. Troviamo una via pedonale lastricata che sembra essere messa meglio del resto del paese, con ristorantini eleganti e negozietti di artigianato più ricercato.
    Ma é vuota. E nel frattempo il cielo si è anche annuvolato.
    Percorriamo la vietta fino al Convento di San Bernardino da Siena, circondato da un giardino enorme, anche questo vuoto.
    Si alza il vento e presto arrivano le prime gocce. Ripercorriamo la strada di negozi sotto la pioggia tropicale, trovando riparo in alcuni negozi di vestiti a poco prezzo dove Paolino si compra le mutande per sopravvivere fino al ritorno.
    C’è poco da fare in realtà, così decidiamo di tornare in albergo dove nel frattempo la nostra stanza veniva preparata.

    Ci laviamo e riusciamo che il temporale è passato, lasciando l’aria decisamente più fresca e respirabile e il centro con le prime luci che si accendono per la sera.

    A pranzo abbiamo discusso di come avremmo potuto visitare il parco di Chichen Itza domani ma soprattutto di come raggiungerlo senza aggiungersi a gruppi lenti di turisti. E abbiamo deciso di noleggiare uno scooter per muoverci in autonomia. Andiamo così in un ufficio di noleggio e ci accordiamo per prenderne uno per domani a 550 pesos. Siamo stati oltretutto graziati perché nessuno dei due ha la patente fisica qui: l’abbiamo lasciata in Italia per sicurezza, e chi pensava che avremmo voluto noleggiare qualcosa. Ma il tipo del noleggio è stato super tranquillo e gli sono bastate le foto che avevamo su drive.

    Quindi soddisfatti della pensata ci avviciniamo al centro per cena. Abbastanza deserto.
    Andiamo sulla vietta turistica pensando di trovare più gente. Nessuno.
    È presto per cenare, così decidiamo di fare aperitivo sulla terrazza di uno dei bar che proponeva l’happy hour e come sempre ci facciamo infinocchiare sul fatto che prendi due cocktail al prezzo di uno, non che uno dei due non paga il suo.
    E quindi ci sorbiamo un daiquiri al limone decente e una cosa al mango con talmente tanto ghiaccio che Paolino torna ad avere i crampi alla pancia.
    Paghiamo e ci avviamo al caffè biologico per cenare, da soli, con tacos vegani alla bieta e torta di patate.
    Anche se la giornata non è stata particolarmente entusiasmante, la stanchezza si fa sentire lo stesso. Decidiamo di bere l’ultimo in albergo: un cocktail molto buono offerto come benvenuto e che sicuramente proverò a riproporlo a casa.
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  • Chichen Itza e il Cenote

    21. Oktober in Mexiko ⋅ ⛅ 30 °C

    La colazione é fantastica. Quello di Valladolid é il migliore degli alberghi finora: l’ambiente meraviglioso, la stanza pulita e comoda, il drink di benvenuto e pure il desayuno top.

    Siamo molto gasati ad uscire presto. Alle otto il noleggio delle moto apre e, a detta del tipo al banco, ci conviene muoverci per arrivare a Chichen Itza prima che arrivino i pullman di turisti da Cancun o da Mérida.

    Saliamo a bordo del nostro scooter rosso e ci mettiamo in strada. Mi basta qualche secondo per riprendere la mano: l’ultima volta (e la prima) che ho guidato una moto per tanto tempo era due anni fa in Vietnam. È anche per rivivere un po quei momenti che abbiamo voluto rifare questa esperienza: allora girare per le risaie di Tam Coc e Hoi An ci aveva dato un senso di libertà e di connessione con il paesaggio provato poche volte nella vita.

    Le strade messicane però non hanno lo stesso fascino. Appena superato il centro e la fila infinita di rallentatori in cemento che ci fanno sobbalzare ogni volta, la strada verso ovest in direzione Chichen Itza è lunga, dritta e la vista del paesaggio è bloccata dai cespugli alti.
    Ma per fortuna basta guardare in alto e le nuvole fanno il resto.
    Corriamo a bordo strada a 60 all’ora sotto il sole per una buona ora, passando un paio di villaggi che offrono il solito ristoro arrabattato al ciglio della strada, cani randagi che riposano sul cemento e rallentatori fastidiosi. Arriviamo a Chichen Itza alle 9:15 abbondanti. Il tipo del noleggio era stato molto chiaro: “tenteranno di fermarvi per farvi parcheggiare ma voi proseguite”. Ed effettivamente appena imbocchiamo la stradina per il parco, decine di guide si piazzano in mezzo alla strada per proporci di parcheggiare la moto a soli 50 pesos o di farci da ciceroni nel sito. Sorridiamo gentilmente e proseguiamo fino al cancello ufficiale, lì paghiamo 130 pesos (erano 120 ma il panzerotto all’entrata non aveva il resto giusto). E parcheggiamo. Ci rendiamo conto già che la speranza di arrivare per primi e beccare Chichen Itza senza turisti era un’illusione troppo grande, dal numero di auto parcheggiate, pullman in attesa e soprattutto gente alle biglietterie.

    Chichen Itza è una delle sette meraviglie del mondo. E nulla ti può far pensare il contrario: paghiamo non uno ma due biglietti a testa, una transazione di 100 pesos per il biglietto (come per Teoatihuacan) più un’altra subito dopo di tasse governative, solo perché eravamo stranieri.
    Passiamo non uno ma due controlli dei biglietti più una perquisizione degli zaini nella fila “estranieros”.
    Per poi tuffarci in un mare di cappellini colorati, infradito, odore di crema solare e voce a decibel decisamente troppo alti.

    Il castello di Chichen Itza è sicuramente magnifico: tenuto divinamente, con una forma particolare e le tanto amate da Paolino teste di serpente piumato in pietra al fondo delle gradinate. Ascoltiamo a sbafo un po di guide a destra e a manca, giusto per provare anche noi gli echi strani che produce la piramide se si battono le mani in un certo punto.
    Facciamo foto e ci facciamo foto cercando di evitare di beccare turisti, ma é una causa persa.

    Ad aggiungersi alla confusione, fischi e versi di giaguari finti provenire da ogni dove dai giocattoli in legno venduti dalle centinaia di ambulanti sotto agli alberi.

    Ci facciamo strada cercando di ignorare il chiasso, vediamo le strutture perle offerte sacrificali, il campo da gioco della pelota più grande della mesoamerica, la piazza delle mille colonne.
    Notiamo anche una processione di formiche rosse che portano pezzi di foglie da un’albero fino all’interno della foresta.

    Il caldo è tanto. Il sole comincia ad essere veramente pesante. Vorremmo far fruttare tutti i 670 pesos che abbiamo pagato a testa per entrare, ma la voglia di scappare era tanta, anche perché da programma avremmo voluto visitare un cenote ma più tempo passavamo li dentro, più possibilità c’era di trovare altre calche per queste attrazioni turistiche cosparse per tutta la zona.

    Nel frattempo Paolino si accorge di non aver messo in zaino le ciabatte, quindi decidiamo di rientrare a Valladolid per recuperarne un paio e poi proseguire per i cenotes a nord della città, che sembrano essere quelli meno battuti dai turisti giornalieri.

    Così ci spariamo di nuovo 40 chilometri a bordo strada con lo scooter, in centro Paolino compra per 50 pesos (2 euro) un paio di infradito discutibili, pranziamo nel cafe di ieri, mangiando sempre toast con pesto e avocado e con hummus e insalata.

    Ci rimettiamo in strada che è poco dopo l’una.
    Attraversiamo la città e usciamo verso est.
    Finora la strada è tranquilla ma, non appena prendiamo un incrocio verso nord, le nuvole cominciano a ingrossarsi e a cadere le prime gocce.
    In men che non si dica scende il diluvio.
    Se all’inizio prendere la pioggerellina può essere stato divertente e rinfrescante, dopo un chilometro sotto l’acquazzone, decidiamo di fermarci sotto un albero in strada per infilarci le giacche, mettere i coprizaini e ripartiamo.
    La pioggia smette qualche chilometro dopo e tutto a un tratto, una brezza calda ci riesce ad asciugare parzialmente i vestiti bombi.
    Dopo un’altra strada dritta infinita in mezzo alla foresta tropicale, appare il cartello del Secret Maya Cenote.

    Parcheggiamo la moto sotto una tettoia, paghiamo 400 pesos (con uno sconto offerto dall’agenzia di noleggio ), ci laviamo e infiliamo il costume come da regole: dopo qualche passo nel “sottobosco” intravediamo il cenote tra le piante. Un buco enorme, con liane e radici degli alberi sovrastanti che cercano acqua nell’immensa pozza sul fondo.

    Ricomincia a piovere con tanto di tuoni e lampi. Il cenote è completamente vuoto: non c’è nessuno tranne noi. Con un po’ di esitazione per l’acqua non proprio limpidissima come il mare della Croazia, ci tuffiamo. E fresca, non salata. Bisogna nuotare per stare a galla.
    Ma la sensazione è surreale: siamo noi, soli, a fare il bagno in un lago sotterraneo nella giungla mentre fuori - e dentro - piove a dirotto.

    Ad una certa la nostra solitudine viene interrotta da due fratelli francesi che fanno su e giù con una carrucola che li porta al centro del cenote e poi lanciarsi in acqua.

    Stiamo ancora qualche minuto, giusto per goderci ancora l’unicità di quel posto dimenticato dall’esistenza e poi ci rilassiamo nel ristorante sopra ordinando caffè americano e crepes di mais con Nutella.

    Smette fortunatamente di piovere. Capiamo che la nostra finestra di tempo è limitata, così inforchiamo la moto e torniamo indietro sui nostri passi, a velocità ridotta per evitare di scivolare su tutte le pozzanghere per strada.
    Arriviamo a Valladolid all’imbrunire: rifacciamo il pieno alla moto, la riportiamo al noleggio e andiamo a farci una doccia bollente per mandare via l’umidità dalle ossa.

    Usciamo per cena, in un altro localino vegetariano sulla strada ciottolata senza turisti, tentiamo l’assaggio finalmente di un churros alla Nutella da un venditore ambulante in piazza centrale e torniamo in albergo, stanchi ma grati della bella giornata.

    Speravamo di poter beccare il cenote con il sole e il caldo, ma la pioggia in fondo l’ha reso un’esperienza magica e soprattutto esclusiva per noi.
    La prossima volta sarà con un altro meteo, ne siamo sicuri.
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  • L’ultima tappa

    22. Oktober in Mexiko ⋅ ☀️ 30 °C

    Come sempre il cielo é azzurro sopra Valladolid. Ormai abbiamo capito che qui la mattina é tutto terso e caldo, poi con l’asciugarsi dell’umidità a terra si formano nuvole e temporali al pomeriggio.

    Sempre colazione spaziale di burritos all’uovo, prepariamo gli zaini ed usciamo al caldo della città, che come al solito alle otto e mezza del mattino sta ancora ingranando.

    Ormai la routine la sappiamo a memoria: arriviamo dieci minuti prima alla stazione ADO, compriamo un paio di bottigliette d’acqua per il viaggio al supermercato Oxxo più vicino e due biscotti nel caso ci venisse fame, insacchettiamo gli zainoni nelle loro coperture da aereo, scannerizziamo i biglietti, saliamo e occupiamo i posti 5 e 6. Non i primi del pullman perché se no non ci sto con le gambe e non gli ultimi perché é più sicuro.

    Il nostro quinto autobus parte e attraversiamo la giungla dello Yucatan. Io guardo Only Murders in the Building mentre Paolino gioca ai pokemon.
    Ogni tanto buttiamo fuori lo sguardo quando passiamo per i villaggetti che tanto mi ricordano l’India. Le casette mezze diroccate, mai finite. I murales usati come cartelli: qui la pubblicità si scrive direttamente sui muri e il 90 percento delle volte è il logo Coca Cola. I cani che riposano sull’asfalto, che sembrano o pieni di fame o che stiamo vivendo la libertà più assoluta senza padroni o qualcuno che li ingabbi in appartamenti microscopici. Le baracche con la griglia fuori, intenti a cucinare pollo per chissà quale avventore che voglia sedersi sulle sedie di plastica e mangiare un taco per pochi pesos a qualunque ora del giorno. Le altre baracche sotto un telo che vendono patatine piccanti e ornamenti intagliati nel legno per turisti che non si fermeranno mai per strada.
    Le palme da cocco, quelle da banane, le bandierine colorate per il dia de muertos.
    L’ADO bus prosegue tranquillo la sua strada i. Una strada che sembra a senso unico verso nord, in una natura rigogliosa che di nuovo accetta l’uomo come ospite indesiderato.

    Becchiamo anche un temporale. Ma non ci preoccupa perché sappiamo che é passeggero. Com’è il nostro segno qui, come le nuvole del Messico. E dopo il sole torna. Torna sempre.

    L’entrata a Chiquilà si riconosce subito: cartelli di ristoranti che non servono più di tacos ma pesce, segni di salsedine sui muri e la strada non più asfaltata ma piena di buche. Siamo arrivati al mare.
    Scendiamo dal bus, mettiamo in spalla gli zaini e ci avviciniamo a quello che sembra il porto, seguendo le bandiere della compagnia di traghetti di cui avevo comprato i biglietti ancora a casa.
    Ci fanno attendere sotto un tendone l’una e mezza: così ci accorgiamo che siamo entrati in una nuova fascia oraria.
    Non prende il telefono e non c’è Wi-Fi. L’unica cosa é godersi la laguna di fronte a noi illuminata dal sole, con le bellissime giganti nuvole del Messico sullo sfondo, un profumo di mare misto a detersivo per pavimenti e gli Abba che suonano sulla filodiffusione.

    Passa fortunatamente poco tempo che ci fanno salire sul traghetto. Facciamo ammassare i nostri zaini assieme ad un’altra ventina di valigie, ci sediamo all’aperto sul ponte principale e partiamo con il ferry.

    Il viaggio dura a malapena venti minuti: attraversiamo la laguna che ci separa dall’isola di Holbox con il vento contro, che ci fa a malapena aprire gli occhi e goderci il sole, mentre le nuvole messicane si stagliano sul mare attorno a noi.
    Attracchiamo a Holbox e già abbiamo la sensazione di un posto dove il tempo é ancora più lento del resto del Messico.
    Ci viene a prendere Dave, un tipo simpatico con un dente d’oro, che alza senza problema i nostri zaini e li appoggia sul gavone posteriore di un quad-taxi. Sfrecciando per le stradine del centro paese ci rendiamo conto che non esistono auto normali a Holbox: non ci sono strade asfaltate, é tutto sabbia e fango per cui per muoversi é quasi fondamentale avere dei mezzi del genere. Attraversiamo negozietti di materiale da mare, ristorantini e baretti colorati con i tetti in palme, mentre ci rendiamo conto di essere finiti in un bellissimo paradiso.
    Dave gira a sinistra, lasciandosi il centro alle spalle e spostandosi verso la parte più incolta dell’isola. Qui vediamo un sacco di cantieri anzi, ci sono solo cantieri di alberghi. Holbox é una meta nuova in costruzione e farci un pensiero di investire qui prima che arrivi il turismo di massa ci passa perla mente. La strada diventa a tratti impraticabile, con enorme pozzanghere di melma bianca ma il quad non si fa problemi e va avanti verso un boschetto di palme.

    Ci scarica così all’entrata del Nomade Hotel. E già dalla “hall” capiamo di aver fatto una scelta assolutamente esagerata.
    Veniamo accolti con cocktail di benvenuto sotto un’altissima tettoia di vimini, Il consierge in canottiera di lino ci accompagna in giro per la struttura con le stanze in legno sugli alberi, una tenda dove ogni giorno ci sono classi gratuite di yoga e meditazione, un ristorante sotto un’altra tettoia di vimini enorme, la spiaggia bianca sul mare caraibico, le piscine fronte mare, la nostra stanza sull’albero, con doccia all’aperto e divano privato sul tetto per ammirare le stelle.

    Siamo senza parole.
    Ringraziamo, facciamo mille foto, chiamiamo a casa per mostrare il paradiso dove staremo per tre giorni, ci infiliamo il costume e ci buttiamo subito in spiaggia.
    L’acqua é calda. L’acqua é calda!
    Che paradiso.
    Leggiamo un pò distesi sui materassi della spiaggia, attendendo la prima classe di yoga.

    Passiamo più di un’ora sulla spiaggia con Aleksei, un ragazzo russo che si è stabilito a Holbox e insegna yoga nell’hotel: una bellissima sessione di meditazione con il sottofondo delle onde del mare e per finire una prova di Shadu Board, delle tavole con spuntoni su cui ci si deve salire per abbandonare il dolore fisico e dominare la mente. Un’esperienza bellissima, culminata con la vista del tramonto sul mare.
    Siamo affascinati da questo posto mistico, che si rivela ogni momento di più il paradiso perfetto.

    Ci laviamo nella doccia fuori dal terrazzo della nostra camera, scorgendo un curioso raccoon in cerca di cibo.
    Vestiti a puntino, inforchiamo le biciclette messe a disposizione dall’hotel per andare verso il centro abitati dell’isola, ma le pozzanghere immense e la fanghiglia ci danno un bel po di filo da torcere, sporcandoci le scarpe non poco. Ci incontriamo per cena con Giulia e Alessandro, la coppia di Varese con cui avevamo cenato a San Cris e che poi hanno fatto un giro diverso e sono a Holbox da un paio di giorni. Passiamo la cena a raccontarci le rispettive esperienze nei cinque giorni in cui non ci siamo visti, le cose che abbiamo visto noi e loro no e viceversa. Ci ragguagliano su un paio di posti interessanti dell’isola e scopriamo che Alessandro ieri ha fatto la proposta di matrimonio a Giulia di fronte al tramonto di Holbox.
    Festeggiamo così in un bar vicino, bevendo mezcalito e ci lasciamo ripromettendoci di reincontrarci in Italia presto.

    Facciamo di nuovo la strada in bici per l’hotel sporcandoci le scarpe un altro po e finiamo la serata sul “rooftop” della camera, guardando la stellata più bella di questa vacanza.
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  • Holbox

    24. Oktober in Mexiko ⋅ ☀️ 29 °C

    Passiamo due giorni di assoluto relax nell’isola di Holbox, nel paradiso del Nomade Hotel.
    Due giorni fatti di colazioni con omelette, frutta, caffè e pane fatto in casa con dulce de leche di fronte al mare. Di passeggiate a destra e a sinistra, esplorando le spiagge di sabbia bianca, scoprendo che l’isola é abitata da iguane, tanuki e fenicotteri.
    Ma il bello rimangono sempre le nuvole, che corrono in un cielo azzurro e vibrante, che accende o spegne l’acqua del mare, resa torrida dalle piccole onde e dal vento.
    É un paradiso di sole e colori.
    Non riesco a staccare lo sguardo dalle palme verdi con i cocchi gialli bagnate dai tramonti fantastici che abbiamo il privilegio di vedere per tre giorni, brindando ogni volta con una cerveza.
    Di notte Holbox scompare nel buio, e dalla terrazza in alto della nostra casetta sull’albero possiamo distenderci e scorgere la via lattea tra il cielo stellato senza luna.
    Proviamo anche ad inoltrarci nell’oscurità per raggiungere la famosa spiaggia della bioluminescenza, ma un serpentello a metà strada terrorizza Paolino a tal punto da far marcia indietro e perdere qualsiasi voglia di assistere al fenomeno. Pazienza, sarà per la prossima volta alle Maldive o nello Sri Lanka.

    Giriamo molto in bicicletta, capendo innanzitutto che a Holbox se provi a mettere le scarpe sai che non rimarranno pulite per molto. Attraversiamo nei modi più coraggiosi le enormi pozzanghere di fango bianco per raggiungere il centro dell’isola, scoprire i negozietti uguali a tutte le bancarelle in giro per il Messico, le spiagge piene di baretti e amache, i cafe moderni con dolci al limone deliziosi.

    Mentre mangiamo una hamburgesa con il beyond in un baracchino non lontano dall’hotel, ci facciamo spiegare dal ragazzo che lo gestisce che Holbox non sorge su roccia, ma é come se fosse un enorme banco di sabbia, che costruire qui é complicato per la manutenzione dagli agenti atmosferici, che sono gli abitanti dell’isola a non voler asfaltare le strade per mantenere l’identità “naturale” del territorio seguendo i suoi avvallamenti originali (le pozze).

    Facciamo due sedute di yoga al mattino presto nella “tenda della gratitudine” che contribuiscono al rilassamento e passiamo le mezz’ore in acqua sul bagnasciuga bianco a contemplare i pro e contro di acquistare un terreno qui, costruirci un albergo e venire a vivere per un po l’isola calma.

    Il Nomade é veramente meraviglioso: ogni volta che saliamo nella nostra casetta sull’albero non possiamo che meravigliarci di questo posto così perfetto, di quanto lontani ci si sente dal mondo, dallo stress, dai problemi, mentre in giro gli addetti continuano a mettere braci ardenti dentro dei secchi di roccia assieme a pezzi di “copal”, un incenso al profumo di resina che ne riempie l’aria e fa filtrare la luce del sole.

    É un bel sogno, un ultimo capitolo rilassante di questo viaggio colorato e importante.
    Ma é tempo purtroppo di tornare.
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  • Cancun e ritorno

    25. Oktober in Mexiko ⋅ ☀️ 30 °C

    La notte di Holbox é stata ventosa e temporalesca. Ma è normale: tanto che al mattino non sembra essere successo niente.
    Facciamo la nostra ultima colazione con omelette ai funghi e queso e bowl di avena con frutta di fronte al mare, scambiando due chiacchiere con le cameriere che ormai ci chiamano per nome.
    Ultimo bagno al mare, con l’acqua più fresca ma sempre meravigliosa, ultimo relax un po’ interrotto dalle mosche particolarmente fastidiose. Ci laviamo, facciamo gli zaini per l’ultima volta e a mezzogiorno ci facciamo venire a prendere dal taxi-quad, salutando con dispiacere quell’angolo di paradiso.

    La mattina di Holbox é calda e umida, ci fa sudare tantissimo, come se ci stesse dicendo “così siete meno tristi ad andarvene”.
    Ci imbarchiamo sul traghetto assieme a tanti altri backpackers. Non riesco a trattenermi nell’immaginare quali avventure possono raccontare quegli zaini: magari sono al capolinea come noi o magari é solo la prima tappa.
    E salgono come per magia la voglia e la forza di rimettersi in viaggio.

    Arriviamo a Chiquilá alle 13. Abbiamo un’ora scarsa prima che l’ADO per l’aeroporto di Cancun parta. Prendiamo delle patatine e un paio di bottigliette di coca cola al supermercato, non proprio eccitati all’idea di sedersi ai tavolini di quella cittadina di pescatori.
    Ma piuttosto che aspettare sotto il sole, ci facciamo preparare al volo due baguette con funghi e insalata in un ristorantino poco raccomandabile per 250 pesos. Mangiamo in fretta con l’ansia che il bus parta in anticipo e ci affrettiamo ad arrivare alla stazione.
    Ficchiamo gli zaini nel gavone e, 5 minuti dopo, partiamo per il nostro ultimo viaggio in bus di questa vacanza.

    Piove e sole, sole e piove.
    Ci mancherà questo clima ballerino ma caldo, ora che stiamo tornando nel pieno dell’autunno a casa.
    Quasi non ci accorgiamo di arrivare in aeroporto a Cancun.
    Il volo é in ritardo di due ore e mezza. Lo sapevamo già dalla partenza da Holbox e, nelle quattro ore che avremmo avuto di attesa, l’idea ci era balzata di fare un giro in centro a Cancun. Ma vedendo la folla di tassisti che si é riversata su di noi appena scesi dal bus, abbiamo preferito risparmiare e risparmiarci rischi.

    Così entriamo, facciamo una lunga fila per il check in dei bagagli, passiamo veloci i controlli.
    E poi noia per qualche ora.
    Ceniamo presto al terminal con burger vegetali e patatine. Ci é costata come la cena al Nomade.
    Per scusarsi del ritardo la compagnia ci ha offerto ben due buoni da 7 dollari americani, che spendiamo in due tazzone da Starbucks.
    Alle dieci e mezza di sera finalmente ci imbarchiamo e poco dopo decolliamo.

    Cerchiamo di dormire con tappi nelle orecchie e copri occhi, seduti accanto ai bagni con un viavai di gente continuo.
    Ci risvegliamo sopra Londra e in poco più di un’ora atterriamo a Zurigo.
    Sembra mattino, ma tempo di prendere un altro caffè da Starbucks (10€) e avviarci al gate che il some é già sceso sotto le nuvole dell’autunno svizzero.

    Sono al gate mentre scrivo queste ultime righe di un altro viaggio che si conclude.
    E le uniche parole che mi vengono in mente sono di gratitudine.
    Gratitudine verso il Messico: un paese così diverso da regione a regione. Diversità che si vedono nei visi delle persone, nei loro vestiti, nel cibo per strada, nelle bancarelle. Nella gentilezza, nelle ambizioni. Città del Messico é la metropoli affacciata al mondo: un miscuglio di tradizione e modernità che attira chiunque abbia il sogno di decollare. Oaxaca, San Cristobal: due gemme che mantengono intatta la storia e in cui un viaggiatore trova il proprio terreno da percorrere.
    Lo Yucatan turistico ma che conserva ancora angoli autentici. Holbox, la perla dove abbiamo pensato più volte di trasferirci sul serio.

    Più di tutto però sono grato a noi, che ci siamo concessi la possibilità di affrontare la paura e la preoccupazione. Eravamo partiti senza orologi, con i portafogli sempre vuoti e un telefono di riserva, nell’ansia costante che prima o poi sarebbe capitato. Che i racconti che ci arrivavano si sarebbero realizzati.
    Il Messico che abbiamo trovato non é più quello di dieci anni fa. É un Messico più sicuro e non intendo che si può andare in giro sfoggiando i propri agi, ma é un Messico dove la sicurezza é diventata un valore importante e si fa di tutto per imporla. Dove magari non si deve più morire dall’ansia, ma avere solamente un profilo basso, come quello che dovrebbe avere un viaggiatore sempre.
    Leave no trace, si dice.

    A Holbox, alla fine della prima seduta di meditazione, mentre seduti sulla sabbia apprezzavano il tramonto e le onde ad occhi chiusi, Alexiej ha detto una cosa: “ringraziate il vostro corpo e la vostra anima per aver sostenuto questo sforzo”. Lui ovviamente si riferiva allo stare in piedi sopra le tavole con i pungiglioni, ma in quel momento ho avuto una rivelazione, ed una lacrima é scesa sul mio viso.
    Sono grato perché siamo arrivati a Holbox con le nostre forze. Senza l’aiuto di nessuno. Questo viaggio l’abbiamo voluto, abbiamo lavorato sodo per pagarci i biglietti, i pasti, gli alberghi, abbiamo affrontato più di 2000 chilometri in autobus, a volte comodissimo, a volte senza chiudere occhio.
    Abbiamo visto così tante cose che sembra una vita fa quando ci siamo ficcati dentro la folla dell’arena a Città del Messico per assistere ad uno spettacolo di wrestling, per dirne solo una.

    Mi é scesa una lacrima, e me ne sono scese altre mentre aprivo gli occhi sul tramonto del Messico, il “Méhico Mahico”: terra di nuvole, consapevolezza e libertà.
    Grato perché ora so, ancora con più convinzione, che possiamo veramente andare ovunque nel mondo.

    Alla prossima.
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    Ende der Reise
    25. Oktober 2025