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- Día 4
- jueves, 25 de abril de 2024
- ☁️ 3 °C
- Altitud: 4 m
IslandiaSeysdisfjordur Port65°15’37” N 14°0’25” W
Alla ricerca dei puffin

Il 25 Aprile è un giorno di festa anche in Islanda, ricorre infatti quello che per loro è il primo giorno d’estate. Non avendo delle vere e proprie mezze stagioni, e con i solstizi molto estremi, il 25 aprile per loro segna l’inizio dei sei mesi di luce perenne. Ma a parte qualche macchina in più per strada, questa festività non sembra aver cambiato tanto il paesaggio che ci appare fuori dalla vetrata del cabin di legno scuro. Qualche nuvola, un po’ di vento in più rispetto al solito ma ce lo facciamo andare bene lo stesso. Facciamo colazione di buon’ora con pane e marmellata e biscotti con in mezzo il cioccolato.
Ci rimettiamo in marcia, di nuovo in direzione est, ma non passano neanche dieci chilometri che cominciamo a fermarci per scattare foto a tutto. Le nuvole sono pazzesche e proiettano forme straordinarie sui promontori che si tuffano sulle spiagge nere illuminate dal sole del mattino.
Avvistiamo su di un crinale a fianco della strada le nostre prime renne e, qualche centinaio di metri più avanti, deviamo dalla strada principale per avvicinarci ad una spiaggia infinita che, bagnata da pochi centimetri d’acqua, riflette a specchio le montagne. Mettiamo a dura prova le scarpe di Lorenz guadando i torrenti a tutta velocità e Veronica fa la sua prima lezione di volo con drone.
Un po’ in ansia per tutta la strada che avremmo dovuto percorrere, tiriamo un po’ con l’auto, mangiandoci le mani ogni volta che si rinuncia a fermarsi per scattare foto. Ad ogni modo notiamo che, superato il villaggio di Kofn, le macchine sono diminuite a vista d’occhio. Sono pochissime quelle che incrociamo e ancora meno quelle che troviamo di fronte a noi, mentre il paesaggio comincia lentamente a cambiare: passiamo dalle interminabili spiagge a veri e propri fiordi, insenature larghe poche centinaia di metri ma che si inerpicano verso il centro dell’isola anche di decine di chilometri. A metà di uno di questi decidiamo di fermarci a pranzo, in uno spiazzo sul ciglio della strada che offre panchine e tavolo da picnic con vista sul mare. Mangiamo in fretta il nostro burrito homemade, cercando di ripararci dietro l’auto dal vento che nel frattempo era aumentato e diventato più freddo.
Rimessi in viaggio, convinco tutti a visitare una cascata in fondo al fiordo, verso il centro dell’isola. Eravamo in viaggio da tre ore, ci stava spezzare un po’ la noia da strada, benché il paesaggio fosse sempre incredibile. Ci arrampichiamo quindi per una strada verso nord, che subito si trasforma in sterrato e tornanti in salita. I monti del fiordo attorno a noi piano piano si riempiono di neve. Non ci rendiamo conto di superare la cascata e arriviamo fin sopra il passo immersi nel bianco assoluto. C’è neve dappertutto, le nuvole basse che corrono, comincia a piovere e intravediamo anche qualche fiocco di neve. Sembrava di essere in un’altra Islanda fino a dieci minuti prima.
Ovviamente non prende più il telefono, l’unico modo è seguire il navigatore della macchina che, senza problemi, continua ad indicarci di andare dritti. Non eravamo solo spaventati di trovare blocchi per neve, o che le buche sul terreno accidentato potessero farci scoppiare una gomma in mezzo a quel nulla, ma pure a benzina non eravamo messi benissimo. Lo spettro di non trovare civiltà per un bel po’ ci attanaglia, eppure il navigatore della macchina continua a puntare avanti imperterrito.
Finisce che però aveva ragione lui. Dopo un paio di chilometri la strada comincia a scendere, la neve si placa, riappare l’asfalto e di fronte a noi si staglia una vallata, con un lago ghiacciato nel mezzo e un grosso paese sul lato opposto, Egilsstaðir. Anche la rete del telefono riappare e scopriamo in realtà che, scavallando quel passo, abbiamo guadagnato quasi due ore di strada, altrimenti perse seguendo il perimetro naturale dei fiordi per arrivare nello stesso punto.
Facciamo benzina e, mentre proseguiamo la strada verso la metà della sera, Seydisfjordur, discutiamo su cosa fare. Siamo due ore in anticipo rispetto alla tabella di marcia, arrivare a Seydisfjordur alle quattro del pomeriggio sarebbe significato concludere la giornata presto ma con l’amaro in bocca di non aver fatto nulla di “significativo” nella giornata. Così prendiamo una decisione, giriamo l’auto e ci rimettiamo in strada verso nord, in direzione di Borgarfjarðarhöfn. Qui, secondo le guide che avevamo letto, si sarebbe potuta trovare una colonia di puffin, le gabbianelle tipiche delle coste nordiche. Non era sicuro che li avremmo potuti vedere però: molte recensioni dicevano di non averne beccato neanche uno, perché le colonie si spostano stagionalmente e anche quando si sarebbero dovuti trovare lì, non era detto che ci sarebbero stati tutto il giorno. Ed era un’ora di strada buona per arrivare, più un’altra ora a tornare, il che significava comunque carburante che in Islanda non te lo regalano di certo. Ci siamo però detti che se non ci avessimo almeno provato, saremmo tornati a casa con il rimorso di aver sprecato un’occasione. La strada interna ad un certo punto svolta a destra, facciamo un altro passo ed eccoci di nuovo nella costa. Il cielo, che fino ad allora era stato sempre coperto, comincia ad aprirsi ogni tanto lasciando alcuni fasci di sole colpire i promontori e accendendo di giallo l’erba secca, appiattita dalla vecchia neve e dalle sferzate dell’oceano. Percorriamo gli ultimi chilometri con gli occhi puntati sulla baia, speranzosi di beccare stormi di volatili neri oppure, impossibile ma che figata altrimenti, gli sbuffi di una balena. Arriviamo al porticciolo di Borgarfjarðarhöfn, scendiamo dalla macchina e ci imbardiamo immediatamente. Il vento, unito all’umido del mare, rendeva l’aria gelata, tanto da resistere veramente pochi minuti all’aperto senza guanti. Io e lorenz scendiamo sulla banchina di rocce che protegge il porto dal mare, incuriositi da un folto gruppo di volatili neri appollaiati in acqua. Riceviamo però il messaggio di Paolino che, facendo il giro largo, era andato verso il porticciolo e ci diceva di correre per raggiungerlo. A fare da copertura al porto c’era un piccolo promontorio sull’acqua, interamente invaso dai puffin. Ce ne saranno stati almeno duemila, appollaiati sui cespugli di erba gialla, in piedi a fare la guardia o nascosti dentro dei piccoli buchi scavati nella terra. Uno spettacolo da togliere il fiato. Non sapevo se ero più soddisfatto di averli trovati malgrado le poche possibilità di successo, sbalordito dalla quantità incredibile di questi uccelli che popolava la collinetta o innamorato dei loro musetti colorati, come se fossero sempre tristi per qualcosa. Rimaniamo un quarto d’ora in silenzio, girandoci a destra e sinistra fotografandone a più non posso, cercando di attirarli schioccando la lingua ma al tempo stesso non disturbandoli troppo. Ad un certo punto il freddo ci attanaglia le mani e, a malincuore, ripieghiamo verso la macchina. Siamo contenti e soddisfatti, non era scontato trovarli e la perseveranza alla fine è stata premiata.
Torniamo indietro a Egilsstaðir ripercorrendo la stessa strada, reimbocchiamo lo stesso passo a tornanti per scavallare la montagna e scendere nel fiordo di Seydisfjordur quando, non appena cominciamo la discesa, chiedo di fermarci.
Non avevamo scelto di guidare così tante ore per arrivare così ad est a caso, soprattutto non avevo scelto Seydisfjordur a caso. Sulla strada a tornanti che discende il passo, dodici anni fa, hanno girato una delle scene più iconiche di uno dei miei film preferiti: “I sogni segreti di Walter Mitty”, quando Ben Stiller, nella corsa contro il tempo per raggiungere il fotografo avventuriero Sean O’Connell (interpretato meravigliosamente da Sean Penn) decide di affrontare le proprie paure e discendere i tornanti del fiordo su di un longboard. È stata per me, negli ultimi anni, la quintessenza della libertà: un singolo minuto di scena, ma con la luce giusta, i colori pazzeschi di un’Islanda estiva, le cascate, la musica evocativa da viaggio, la convinzione che abbiamo nel nostro bagaglio della vita tutto ciò che serve per sentirci liberi. Non era certo lo stesso periodo, il fiordo si presentava ancora pieno di neve, con le nuvole basse e il vento freddo, ma l’ho riconosciuta subito. Quella era la strada di Walter Mitty. Mi faccio fare una foto evocativa e poi ci lanciamo giù per i tornanti, con la stessa musica del film alla radio. È stato un momento poetico, indimenticabile.
Arriviamo a Seydisfjordur e ci rendiamo conto di essere lontani da tutto ciò che potevamo aver visto finora in Islanda, che benché naturalisticamente straordinario, conservava sempre un non so che di turistico. Quel paesino di pescatori era puro, vero, con la stessa flemma che uno si aspetta da un villaggio di mare del nord. Facciamo un giro di ricognizione in macchina sul porto, per vedere la fabbrica di pesce (e nausearti dalla puzza), prima di arrivare all’alloggio, che scopriamo essere ricavato dal vecchio ufficio postale. Il posto è coccolo, con addirittura un salottino con vetrate sulla baia. Facciamo volare i droni per recuperare gli ultimi bellissimi raggi di sole del tramonto, mentre illuminano di arancione il fiordo innevato e immerso nelle nuvole. Ceniamo in un ristorantino (l’unico) del centro assieme a qualche altro viaggiatore (perché a quelle latitudini non si possono più chiamare turisti) meravigliandoci che a quelle latitudini hanno più proposte vegetariane dei nostri ristoranti in centro città.
Prima di rintanarci a letto, facciamo due passi per il villaggio, ascoltando il silenzio fermo del fiordo, interrotto solo dalle urla di bambini del luogo che saltavano sopra un vecchio autobus malmesso. Era pur sempre il loro primo giorno d’estate.Leer más