• Chichen Itza e il Cenote

    October 21 in Mexico ⋅ ⛅ 30 °C

    La colazione é fantastica. Quello di Valladolid é il migliore degli alberghi finora: l’ambiente meraviglioso, la stanza pulita e comoda, il drink di benvenuto e pure il desayuno top.

    Siamo molto gasati ad uscire presto. Alle otto il noleggio delle moto apre e, a detta del tipo al banco, ci conviene muoverci per arrivare a Chichen Itza prima che arrivino i pullman di turisti da Cancun o da Mérida.

    Saliamo a bordo del nostro scooter rosso e ci mettiamo in strada. Mi basta qualche secondo per riprendere la mano: l’ultima volta (e la prima) che ho guidato una moto per tanto tempo era due anni fa in Vietnam. È anche per rivivere un po quei momenti che abbiamo voluto rifare questa esperienza: allora girare per le risaie di Tam Coc e Hoi An ci aveva dato un senso di libertà e di connessione con il paesaggio provato poche volte nella vita.

    Le strade messicane però non hanno lo stesso fascino. Appena superato il centro e la fila infinita di rallentatori in cemento che ci fanno sobbalzare ogni volta, la strada verso ovest in direzione Chichen Itza è lunga, dritta e la vista del paesaggio è bloccata dai cespugli alti.
    Ma per fortuna basta guardare in alto e le nuvole fanno il resto.
    Corriamo a bordo strada a 60 all’ora sotto il sole per una buona ora, passando un paio di villaggi che offrono il solito ristoro arrabattato al ciglio della strada, cani randagi che riposano sul cemento e rallentatori fastidiosi. Arriviamo a Chichen Itza alle 9:15 abbondanti. Il tipo del noleggio era stato molto chiaro: “tenteranno di fermarvi per farvi parcheggiare ma voi proseguite”. Ed effettivamente appena imbocchiamo la stradina per il parco, decine di guide si piazzano in mezzo alla strada per proporci di parcheggiare la moto a soli 50 pesos o di farci da ciceroni nel sito. Sorridiamo gentilmente e proseguiamo fino al cancello ufficiale, lì paghiamo 130 pesos (erano 120 ma il panzerotto all’entrata non aveva il resto giusto). E parcheggiamo. Ci rendiamo conto già che la speranza di arrivare per primi e beccare Chichen Itza senza turisti era un’illusione troppo grande, dal numero di auto parcheggiate, pullman in attesa e soprattutto gente alle biglietterie.

    Chichen Itza è una delle sette meraviglie del mondo. E nulla ti può far pensare il contrario: paghiamo non uno ma due biglietti a testa, una transazione di 100 pesos per il biglietto (come per Teoatihuacan) più un’altra subito dopo di tasse governative, solo perché eravamo stranieri.
    Passiamo non uno ma due controlli dei biglietti più una perquisizione degli zaini nella fila “estranieros”.
    Per poi tuffarci in un mare di cappellini colorati, infradito, odore di crema solare e voce a decibel decisamente troppo alti.

    Il castello di Chichen Itza è sicuramente magnifico: tenuto divinamente, con una forma particolare e le tanto amate da Paolino teste di serpente piumato in pietra al fondo delle gradinate. Ascoltiamo a sbafo un po di guide a destra e a manca, giusto per provare anche noi gli echi strani che produce la piramide se si battono le mani in un certo punto.
    Facciamo foto e ci facciamo foto cercando di evitare di beccare turisti, ma é una causa persa.

    Ad aggiungersi alla confusione, fischi e versi di giaguari finti provenire da ogni dove dai giocattoli in legno venduti dalle centinaia di ambulanti sotto agli alberi.

    Ci facciamo strada cercando di ignorare il chiasso, vediamo le strutture perle offerte sacrificali, il campo da gioco della pelota più grande della mesoamerica, la piazza delle mille colonne.
    Notiamo anche una processione di formiche rosse che portano pezzi di foglie da un’albero fino all’interno della foresta.

    Il caldo è tanto. Il sole comincia ad essere veramente pesante. Vorremmo far fruttare tutti i 670 pesos che abbiamo pagato a testa per entrare, ma la voglia di scappare era tanta, anche perché da programma avremmo voluto visitare un cenote ma più tempo passavamo li dentro, più possibilità c’era di trovare altre calche per queste attrazioni turistiche cosparse per tutta la zona.

    Nel frattempo Paolino si accorge di non aver messo in zaino le ciabatte, quindi decidiamo di rientrare a Valladolid per recuperarne un paio e poi proseguire per i cenotes a nord della città, che sembrano essere quelli meno battuti dai turisti giornalieri.

    Così ci spariamo di nuovo 40 chilometri a bordo strada con lo scooter, in centro Paolino compra per 50 pesos (2 euro) un paio di infradito discutibili, pranziamo nel cafe di ieri, mangiando sempre toast con pesto e avocado e con hummus e insalata.

    Ci rimettiamo in strada che è poco dopo l’una.
    Attraversiamo la città e usciamo verso est.
    Finora la strada è tranquilla ma, non appena prendiamo un incrocio verso nord, le nuvole cominciano a ingrossarsi e a cadere le prime gocce.
    In men che non si dica scende il diluvio.
    Se all’inizio prendere la pioggerellina può essere stato divertente e rinfrescante, dopo un chilometro sotto l’acquazzone, decidiamo di fermarci sotto un albero in strada per infilarci le giacche, mettere i coprizaini e ripartiamo.
    La pioggia smette qualche chilometro dopo e tutto a un tratto, una brezza calda ci riesce ad asciugare parzialmente i vestiti bombi.
    Dopo un’altra strada dritta infinita in mezzo alla foresta tropicale, appare il cartello del Secret Maya Cenote.

    Parcheggiamo la moto sotto una tettoia, paghiamo 400 pesos (con uno sconto offerto dall’agenzia di noleggio ), ci laviamo e infiliamo il costume come da regole: dopo qualche passo nel “sottobosco” intravediamo il cenote tra le piante. Un buco enorme, con liane e radici degli alberi sovrastanti che cercano acqua nell’immensa pozza sul fondo.

    Ricomincia a piovere con tanto di tuoni e lampi. Il cenote è completamente vuoto: non c’è nessuno tranne noi. Con un po’ di esitazione per l’acqua non proprio limpidissima come il mare della Croazia, ci tuffiamo. E fresca, non salata. Bisogna nuotare per stare a galla.
    Ma la sensazione è surreale: siamo noi, soli, a fare il bagno in un lago sotterraneo nella giungla mentre fuori - e dentro - piove a dirotto.

    Ad una certa la nostra solitudine viene interrotta da due fratelli francesi che fanno su e giù con una carrucola che li porta al centro del cenote e poi lanciarsi in acqua.

    Stiamo ancora qualche minuto, giusto per goderci ancora l’unicità di quel posto dimenticato dall’esistenza e poi ci rilassiamo nel ristorante sopra ordinando caffè americano e crepes di mais con Nutella.

    Smette fortunatamente di piovere. Capiamo che la nostra finestra di tempo è limitata, così inforchiamo la moto e torniamo indietro sui nostri passi, a velocità ridotta per evitare di scivolare su tutte le pozzanghere per strada.
    Arriviamo a Valladolid all’imbrunire: rifacciamo il pieno alla moto, la riportiamo al noleggio e andiamo a farci una doccia bollente per mandare via l’umidità dalle ossa.

    Usciamo per cena, in un altro localino vegetariano sulla strada ciottolata senza turisti, tentiamo l’assaggio finalmente di un churros alla Nutella da un venditore ambulante in piazza centrale e torniamo in albergo, stanchi ma grati della bella giornata.

    Speravamo di poter beccare il cenote con il sole e il caldo, ma la pioggia in fondo l’ha reso un’esperienza magica e soprattutto esclusiva per noi.
    La prossima volta sarà con un altro meteo, ne siamo sicuri.
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