• L’ultima tappa

    October 22 in Mexico ⋅ ☀️ 30 °C

    Come sempre il cielo é azzurro sopra Valladolid. Ormai abbiamo capito che qui la mattina é tutto terso e caldo, poi con l’asciugarsi dell’umidità a terra si formano nuvole e temporali al pomeriggio.

    Sempre colazione spaziale di burritos all’uovo, prepariamo gli zaini ed usciamo al caldo della città, che come al solito alle otto e mezza del mattino sta ancora ingranando.

    Ormai la routine la sappiamo a memoria: arriviamo dieci minuti prima alla stazione ADO, compriamo un paio di bottigliette d’acqua per il viaggio al supermercato Oxxo più vicino e due biscotti nel caso ci venisse fame, insacchettiamo gli zainoni nelle loro coperture da aereo, scannerizziamo i biglietti, saliamo e occupiamo i posti 5 e 6. Non i primi del pullman perché se no non ci sto con le gambe e non gli ultimi perché é più sicuro.

    Il nostro quinto autobus parte e attraversiamo la giungla dello Yucatan. Io guardo Only Murders in the Building mentre Paolino gioca ai pokemon.
    Ogni tanto buttiamo fuori lo sguardo quando passiamo per i villaggetti che tanto mi ricordano l’India. Le casette mezze diroccate, mai finite. I murales usati come cartelli: qui la pubblicità si scrive direttamente sui muri e il 90 percento delle volte è il logo Coca Cola. I cani che riposano sull’asfalto, che sembrano o pieni di fame o che stiamo vivendo la libertà più assoluta senza padroni o qualcuno che li ingabbi in appartamenti microscopici. Le baracche con la griglia fuori, intenti a cucinare pollo per chissà quale avventore che voglia sedersi sulle sedie di plastica e mangiare un taco per pochi pesos a qualunque ora del giorno. Le altre baracche sotto un telo che vendono patatine piccanti e ornamenti intagliati nel legno per turisti che non si fermeranno mai per strada.
    Le palme da cocco, quelle da banane, le bandierine colorate per il dia de muertos.
    L’ADO bus prosegue tranquillo la sua strada i. Una strada che sembra a senso unico verso nord, in una natura rigogliosa che di nuovo accetta l’uomo come ospite indesiderato.

    Becchiamo anche un temporale. Ma non ci preoccupa perché sappiamo che é passeggero. Com’è il nostro segno qui, come le nuvole del Messico. E dopo il sole torna. Torna sempre.

    L’entrata a Chiquilà si riconosce subito: cartelli di ristoranti che non servono più di tacos ma pesce, segni di salsedine sui muri e la strada non più asfaltata ma piena di buche. Siamo arrivati al mare.
    Scendiamo dal bus, mettiamo in spalla gli zaini e ci avviciniamo a quello che sembra il porto, seguendo le bandiere della compagnia di traghetti di cui avevo comprato i biglietti ancora a casa.
    Ci fanno attendere sotto un tendone l’una e mezza: così ci accorgiamo che siamo entrati in una nuova fascia oraria.
    Non prende il telefono e non c’è Wi-Fi. L’unica cosa é godersi la laguna di fronte a noi illuminata dal sole, con le bellissime giganti nuvole del Messico sullo sfondo, un profumo di mare misto a detersivo per pavimenti e gli Abba che suonano sulla filodiffusione.

    Passa fortunatamente poco tempo che ci fanno salire sul traghetto. Facciamo ammassare i nostri zaini assieme ad un’altra ventina di valigie, ci sediamo all’aperto sul ponte principale e partiamo con il ferry.

    Il viaggio dura a malapena venti minuti: attraversiamo la laguna che ci separa dall’isola di Holbox con il vento contro, che ci fa a malapena aprire gli occhi e goderci il sole, mentre le nuvole messicane si stagliano sul mare attorno a noi.
    Attracchiamo a Holbox e già abbiamo la sensazione di un posto dove il tempo é ancora più lento del resto del Messico.
    Ci viene a prendere Dave, un tipo simpatico con un dente d’oro, che alza senza problema i nostri zaini e li appoggia sul gavone posteriore di un quad-taxi. Sfrecciando per le stradine del centro paese ci rendiamo conto che non esistono auto normali a Holbox: non ci sono strade asfaltate, é tutto sabbia e fango per cui per muoversi é quasi fondamentale avere dei mezzi del genere. Attraversiamo negozietti di materiale da mare, ristorantini e baretti colorati con i tetti in palme, mentre ci rendiamo conto di essere finiti in un bellissimo paradiso.
    Dave gira a sinistra, lasciandosi il centro alle spalle e spostandosi verso la parte più incolta dell’isola. Qui vediamo un sacco di cantieri anzi, ci sono solo cantieri di alberghi. Holbox é una meta nuova in costruzione e farci un pensiero di investire qui prima che arrivi il turismo di massa ci passa perla mente. La strada diventa a tratti impraticabile, con enorme pozzanghere di melma bianca ma il quad non si fa problemi e va avanti verso un boschetto di palme.

    Ci scarica così all’entrata del Nomade Hotel. E già dalla “hall” capiamo di aver fatto una scelta assolutamente esagerata.
    Veniamo accolti con cocktail di benvenuto sotto un’altissima tettoia di vimini, Il consierge in canottiera di lino ci accompagna in giro per la struttura con le stanze in legno sugli alberi, una tenda dove ogni giorno ci sono classi gratuite di yoga e meditazione, un ristorante sotto un’altra tettoia di vimini enorme, la spiaggia bianca sul mare caraibico, le piscine fronte mare, la nostra stanza sull’albero, con doccia all’aperto e divano privato sul tetto per ammirare le stelle.

    Siamo senza parole.
    Ringraziamo, facciamo mille foto, chiamiamo a casa per mostrare il paradiso dove staremo per tre giorni, ci infiliamo il costume e ci buttiamo subito in spiaggia.
    L’acqua é calda. L’acqua é calda!
    Che paradiso.
    Leggiamo un pò distesi sui materassi della spiaggia, attendendo la prima classe di yoga.

    Passiamo più di un’ora sulla spiaggia con Aleksei, un ragazzo russo che si è stabilito a Holbox e insegna yoga nell’hotel: una bellissima sessione di meditazione con il sottofondo delle onde del mare e per finire una prova di Shadu Board, delle tavole con spuntoni su cui ci si deve salire per abbandonare il dolore fisico e dominare la mente. Un’esperienza bellissima, culminata con la vista del tramonto sul mare.
    Siamo affascinati da questo posto mistico, che si rivela ogni momento di più il paradiso perfetto.

    Ci laviamo nella doccia fuori dal terrazzo della nostra camera, scorgendo un curioso raccoon in cerca di cibo.
    Vestiti a puntino, inforchiamo le biciclette messe a disposizione dall’hotel per andare verso il centro abitati dell’isola, ma le pozzanghere immense e la fanghiglia ci danno un bel po di filo da torcere, sporcandoci le scarpe non poco. Ci incontriamo per cena con Giulia e Alessandro, la coppia di Varese con cui avevamo cenato a San Cris e che poi hanno fatto un giro diverso e sono a Holbox da un paio di giorni. Passiamo la cena a raccontarci le rispettive esperienze nei cinque giorni in cui non ci siamo visti, le cose che abbiamo visto noi e loro no e viceversa. Ci ragguagliano su un paio di posti interessanti dell’isola e scopriamo che Alessandro ieri ha fatto la proposta di matrimonio a Giulia di fronte al tramonto di Holbox.
    Festeggiamo così in un bar vicino, bevendo mezcalito e ci lasciamo ripromettendoci di reincontrarci in Italia presto.

    Facciamo di nuovo la strada in bici per l’hotel sporcandoci le scarpe un altro po e finiamo la serata sul “rooftop” della camera, guardando la stellata più bella di questa vacanza.
    Read more