• Il Quarnaro

    29 lipca, Chorwacja ⋅ 🌬 21 °C

    Le previsioni sussurrano attese: “Aspettate fino a mezzogiorno,” dicono.
    Ma il destino è inchiodato a un ponte girevole,
    che si apre solo alle nove… o alle diciassette.
    E allora, che fare? Non restano alternative: si parte.
    All’alba, ci infiliamo dentro le nostre mute da regata transoceanica,
    le dita rigide, il fiato che si condensa nel freddo.
    Il vento graffia, la pioggia picchietta come se volesse entrare,
    e la temperatura… è quella delle storie difficili.

    Lasciamo Nerezine sapendo – senza bisogno di conferme –
    che nel Quarnaro la bora ruggirà come una belva in gabbia,
    solleverà onde che sembrano montagne mobili.
    Eppure… perché farlo oggi, con questo tempo da lupi,
    quando potremmo attendere il mercoledì della quiete?
    Perché Ludo e Ilaria soffrono più di noi il mal di terra e poi si divertono proprio a navigare per
    Mare.
    E noi?
    Noi navighiamo con loro,
    portati dal loro entusiasmo come da un’onda buona.

    In meno di mezz’ora siamo davanti al ponte:
    immobile, immenso, pronto solo per noi.
    Gli unici a passare,
    come se il mondo volesse darci un segnale
    che ancora non sappiamo decifrare.

    L’idea era semplice: prendere una boa.
    Ma il mio talento per la goffaggine si manifesta puntuale,
    come una marea che non perdona.
    Una piccola elica, strumento di precisione, si spezza.
    Il danno? Mille euro.
    La solita fortuna: solo le cose si rompono, noi restiamo interi.
    Ma nel petto porto un nodo,
    e una domanda che mi accompagna da sempre:
    “Perché, pur avendo infinite occasioni per fare la cosa giusta,
    statisticamente non accade mai?”

    Ora siamo lì:
    io col mio nodo e il cuore un po’ ammaccato,
    Ludo con gli occhi bassi,
    e Ilaria salda al timone,
    ad attendere quei minuti che ci separano dal mare vero.

    Il ponte si apre.
    Davanti a noi, esattamente come l’avevo immaginato,
    il mare si distende e ringhia: bora, onde, pioggia a secchiate.
    La barca s’inclina, dentro tutto vola.
    Non ho paura.
    Non siamo in pericolo, no.
    Ma è tutto così…
    inutilmente al limite.

    E forse è proprio questo,
    il gusto amaro e vivo dell’andare per mare.
    Il rischio senza gloria,
    l’adrenalina che sale per vie traverse,
    e la poesia che si scrive da sola,
    mentre il mondo intorno ruota lento
    come un ponte girevole. Le ore passano,
    una dopo l’altra, come onde lunghe che non chiedono permesso.
    Il mare ha smesso di ringhiare, si è fatto più docile,
    quasi accarezza il nostro scafo
    come a dire: “Va bene, siete passati, ora andate.”

    Siamo già a Pola,
    la città armata di rovine e silenzi,
    ma qualcosa dentro ci spinge oltre.
    Perché fermarsi?
    Rovigno ci manca da troppo.
    È lì, in fondo al pensiero, come un volto amato che non vedi da anni
    e all’improvviso ti manca con una fame sottile.

    Così proseguiamo.
    Ilaria e Ludo si alternano al timone con quell’aria lieve
    di chi sta giocando a rincorrere le nuvole.
    Io no.
    Io sono ancora in punizione.
    Un auto-esilio silenzioso,
    come chi ha rotto qualcosa di sacro
    e non sa ancora perdonarsi.

    Le condizioni, però, ora sorridono.
    Il vento si è calmato, la pioggia è un ricordo
    che si asciuga sulle vele.
    La temperatura si è fatta amica,
    e finalmente, tra una virata e uno sguardo lungo,
    intravvediamo Rovigno.
    Lì, sospesa tra cielo e mare,
    ci aspetta con le sue pietre calde e le calli profumate di sale.

    Ed è come rivedere qualcuno
    che non ti ha mai chiesto spiegazioni.
    Solo: “Bentornati.”
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