Japan One

augusti 2024
  • Lorenzo Busi
Il nostro primo passo alla scoperta del mondo Giappone Läs mer
  • Lorenzo Busi

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    8 augusti 2024, Japan ⋅ ⛅ 32 °C

    Ci svegliamo alle 6:30. Le piante sono annaffiate e ammassate in cucina: non dovrebbero soffrire troppo senza acqua per due settimane. Chiudiamo le valigie e scendiamo: mio papà ci aspetta in macchina per portarci in aeroporto.
    Oggi affronteremo un volo lungo che ci porterà di nuovo a est, questa volta in Giappone, questa volta da soli. Sempre affascinati da quel mondo lontano, abbiamo deciso all’ultimo di fare la pazzia e prendere due (costosi) biglietti per Tokyo. Abbiamo studiato per giorni l’itinerario, prenotato gli alberghi, i trasporti. L’unica cosa che ci siamo lasciati all’oscuro è proprio il cosa faremo ogni giorno, non avendo idea delle condizioni che avremmo potuto trovare.

    L’aeroporto di Venezia alle otto del mattino è affollato, come giusto che sia i primi di agosto. Portiamo i bagagli al check in e già affrontiamo la prima ansia: non avendo fatto il check in online il giorno precedente (mai fatto in tutti i viaggi in America) siamo stati messi in attesa, perché il volo era in overbooking. Già parte il terrore di non arrivare in tempo per lo scalo a Monaco, di saltare chissà quanti giorni di viaggio. Inermi e infastiditi, ci portiamo vicino al gate, sperando di incrociare gli sguardi delle hostess e avere novità. Il gate apre per imbarcare: mi fiondo al banco speranzoso e si, c’è posto in aereo, ma avremmo dovuto soffrire di nuovo anche allo scalo a Monaco, perché anche il volo per Tokyo sarebbe stato in overbooking.

    Decolliamo e riatterriamo in meno di un’ora. Dopo un donut e un caffè per tirarci su di morale, ci ripiazziamo di fronte al gate sperando nello sguardo delle hostess. Cominciano ad imbarcare di nuovo, di nuovo ci presentiamo speranzosi al banco e di nuovo veniamo graziati con i nostri biglietti. Ci imbarchiamo più leggeri e affrontiamo 12 ore di volo interminabili. Guardiamo film, proviamo a dormire, mangiamo quello che per Paolo è il migliore pasto aereo mai provato.

    Atterriamo a Tokyo alle otto del mattino. Recuperiamo fortunatamente anche i bagagli e ci infiliamo subito sulla monorotaia per il centro passando per la prima volta sul lettore la nostra Suica, la carta dei trasporti ricaricabile direttamente sul telefono.
    Tokyo si presenta nuvolosa, ma il caldo che percepiamo tra una fermata e l’altra della metropolitana non ci spaventa ancora tanto. Scendiamo alla fermata di Akasaka ed entriamo finalmente nell’immaginario del Giappone: profumo di noodles costante, insegne luminose ovunque, palazzi stretti, auto ancora più strette, persone che camminano silenziose. Molliamo le valigie in albergo, facendoci confermare che sarebbe stato possibile entrare in stanza solo dopo le due del pomeriggio, riempiamo le borracce di acqua e sali minerali ed usciamo in esplorazione.

    Non abbiamo mete precise, se non la voglia di catturare ogni singolo centimetro di quello che c’era attorno a noi: un tipico sobborgo urbano giapponese. La cosa che però in assoluto bisognava subito fare era provare i pasti pronti dei combini, i micro supermercati sparsi dovunque: prendiamo tre onigiri, di cui uno scopro essere al pesce. Camminiamo un po’ a caso, puntando al santuario di Meiji Jingu e pian piano le nostre energie cominciano a calare. Iniziamo a soffrire l’afa di Tokyo: un caldo insostenibile che ci fa sudare e bagnare le magliette passo dopo passo. Arriviamo a fatica nel parco di Meiji Jingu e troviamo un po’ di refrigerio sotto gli alberi maestosi, circondati dal ronzio assordante di milioni di cicale. Arriviamo al tempio assieme ad almeno duecento turisti: gli shintoisti che risalgono le scale del tempio fino all’entrata, gettano una monetina in un grande contenitore, si inchinano, battono tre volte le mani e pregano, e tutti gli altri che affollano l’albero delle preghiere dove scrivi un pensiero su di una tavoletta di legno e lo appendi e le cassette delle profezie dove per 100yen puoi estrarre un numero e prendere un foglietto dal cassetto corrispondente. Investiamo una moneta da 500 yen ma becchiamo due profezie non proprio fortunate. A saperlo, avremmo dovuto legarle ad una staccionata accanto, ma invece ce le portiamo via. Chissà magari sarà un segno.

    È appena mezzogiorno e già siamo sfiniti. Arriviamo da troppe ore di volo, forse due o tre di sonno e ad aggiungersi al caldo afoso ci si mette anche la fame.
    Fortuna che Paolo si è segnato un sacco di ristoranti vegetariani in giro per Tokyo: troviamo il più vicino scoprendo essere in realtà il banco all’interno di una food square. Dentro, l’aria condizionata è a palla: con le magliette completamente sudate restiamo giusto il tempo di mangiare un piatto al volo e ci ricacciamo fuori al caldo prima di congelarci.
    La voglia di camminare comincia a mancare, ci trasciniamo nel parco di Shinjuku sperando che il tempo passi veloce. Scopriamo con sorpresa che il parco ha un bellissimo giardino giapponese, con l’erba tagliata fina, il laghetto e i salici. Passiamo dall’ombra di un albero all’altra e visitiamo pure la piccola serra del parco. Si fanno le due: prendiamo così al volo la metro e ci ficchiamo in camera per poterci fare finalmente una doccia e riposare.

    Dormiamo due ore, giusto il tempo per ricaricarci senza rimanere schiavi del jet lag. Usciamo dall’albergo e decidiamo di tornare verso Shinjuku. Nel frattempo il sole è tramontato e, quando risaliamo dalla metropolitana, veniamo abbagliati dallo spettacolo di luci della Tokyo notturna. Centinaia di insegne luminose si arrampicano sulle pareti di palazzi e grattacieli. Schermi led giganti ad ogni angolo con pubblicità improbabili e un gatto gigante che canta. Centinaia di persone che si riversano sugli incroci, attraversando le strade sulle strisce come fiumi umani. Ci perdiamo per le strade di Shinjuku, scoprendo le viette del Golden Gai piene di bar grandi due metri, appena il posto per un banco e tre sedie ciascuno. Così è anche Omoide Yokocho, piena di ristorantini da pochi posti, immersa nel fumo della carne cotta alla griglia al momento. Ci incontriamo con Marco e Valentina, due ragazzi di H-Farm che conoscevo quando lavoravo a BigRock. Assieme ci spostiamo in un ristorante famoso per gli Okonomayaki, delle specie di frittate con dentro di tutto: mai mangiata una frittata vegetariana così buona. Concludiamo la serata in un baretto nel Golden Gai, trovato per caso salendo una scala a pioli strettissima. Beviamo sake freddo e ci facciamo consigliare dai ragazzi cosa fare nei giorni successivi, visto che erano arrivati alla fine del loro viaggio e avevano tenuto Tokyo come meta finale.

    Ormai sfiniti, torniamo in metro ad Akasaka, ci facciamo una seconda doccia e sfiniamo a letto.
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  • Videogiochi

    9 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 34 °C

    Ci svegliamo con relativa calma, il cielo si è un po’ aperto e il sole è già bello alto (e caldo) su Tokyo.
    Tra i posti assolutamente consigliati dai mille video e recensioni che ci siamo sorbiti prima di partire, c’era un posto che sicuramente non poteva essere saltato: il quartiere di Akihabara e la sua electric town. Un quartiere intero in cui si riversa l’intera nerdaggine del mondo: file di palazzi (di almeno 8/9 piani) completamente ricolmi di cabinati, negozi di videogiochi ma soprattutto tante, tantissime action figures. Se uno è appena appassionato di manga e modellismo, beh quel posto è sicuramente la sua rovina. Ci spulciamo tre/quattro palazzi giusto per comprendere (senza giudicare) la passione morbosa che hanno i giapponesi (tutti, non c’era distinzione di età o sesso) per le statuine dei personaggi manga, per le carte collezionabili, per i videogiochi di qualsiasi console. Per non parlare di edifici interi adibiti a sale giochi dove per vari piani trovi solo macchinine a premi, poi se vai di sopra invece le stanze sono riempite di qualsiasi tipo di gioco. Corse, combattimento, ma sopratutto musicali. A volte faceva quasi tristezza vedere persone adulte, anche vecchie, giocare da ore a giochetti considerati da ragazzini. Mi ha ricordato tanto le slot di Las Vegas, con i fantasmi dei vecchi lobotomizzati dalle luci e dai suoni delle macchinette.

    Eravamo arrivati ad Akihabara in realtà per cercare un posto in particolare, una sorta di mecca per gli appassionati di giochi retro.
    Scoviamo l’insegna del Super Potato accanto ad una porta anonima, incastrata tra due palazzine. Percorriamo un corridoio buio e stretto, saliamo delle scale vecchie, incerti di cosa avremmo trovato al primo piano. E invece ci si apre una stanza con scaffali pieni di cassette di vecchi videogiochi, console Nintendo retró, pupazzi e merchandising di super Mario. Passiamo una mezz’ora buona ad ammirare quello che per un appassionato gamer, collezionista di merchandising e con tanti soldi sarebbe stato il paese dei balocchi. Il super potato ha anche altri due piani superiori e un “attico” sporco e dal soffitto basso dedicato ai vecchi cabinati.

    Arriva l’ora di pranzo e dalla lista di Paolo manca ancora una cosa da smarcare: trovare una sala giochi che esponesse i cabinati di Mario Kart.
    Prima però ci fermiamo in un ristorantino vegano vicino alla fermata della metro, mangiando polpette di soia disidratata, miso e broccoletti con salsa all’uovo.

    Ricominciamo la caccia al Mario Kart senza successo. Decidiamo allora di spostarci verso nord con la metro nella zona di Ueno. Giriamo un po’ senza meta per le bancarelle di Ameyoko quando, all’ennesimo tentativo in un Taito building, finalmente troviamo i cabinati di Mario Kart. Facciamo due partite, Paolo ora è soddisfatto. Giriamo a zonzo per il parco di Ueno, riposandoci sotto gli alberi e scattando foto ad un piccolo e grazioso tempio.
    Siamo un po’ stanchi di camminare e il caldo ha ricominciato ad essere veramente pesante. Tiriamo fino ai templi di Asakusa, pieni di turisti che si fermano ad ogni negozietto che vende souvenir e cibo. Fortunatamente, il tempio di Senso-Ji e la pagoda gigante sono bellissimi e ripagano la fatica e il casino della folla. Siamo ormai stremati, ci trasciniamo così in metro fino all’albergo per la prima doccia del giorno e ricaricare le batterie.

    Quando sono le sette riusciamo e ci spostiamo nel quartiere di Shibuya, dove per la serata avevamo prenotato un ristorante di sushi vegano.
    Il posto è veramente magico: al quattordicesimo piano con la vista sulla skyline, design minimale e il personale è talmente gentile e preciso che ogni volta che entra o esce un cliente salutano tutti in coro, chef compresi.
    Il cibo invece insomma: avevamo ordinato due menù fissi pensando di mangiare veramente molto sushi, invece sono arrivate verdure senza tanti complimenti e sei nigiri in croce con funghi o erbette sopra il riso. La sensazione è stata un po’ di fare un dispetto agli chef non volendo mangiare il pesce, perciò hanno fatto il minimo indispensabile. Usciamo comunque soddisfatti dell’esperienza.

    Facciamo due passi per Shibuya, andiamo a vedere il famoso incrocio pieno di passanti, facciamo la foto dalla statua del cane Hachiko e, prima di tornare in albergo, ci concediamo un’ultimo giro a Mario Kart, trovato per caso in un altro Taito lì vicino.
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  • Shopping

    10 augusti 2024, Japan ⋅ ☁️ 31 °C

    Arriviamo di buon ora a Shibuya. L’obiettivo della giornata è semplice: acquisti. Veniamo attratti subito dai cartelli colorati di un megastore chiamato Don Juan con un pinguino blu come mascotte. Dentro scopriamo il vero paradiso delle cinesate: nove piani di cianfrusaglie, articoli per il bagno e la casa, gadget, giochi ma soprattutto souvenir. Come avevamo fatto gli scorsi giorni, non resistiamo alla necessità di passarci al setaccio ogni piano, con l’ansia di perderci qualche oggetto assurdo e irrinunciabile da portare a casa come regalo. Ne usciamo quasi indenni, ma avremmo comprato veramente di tutto.

    La seconda tappa a shibuya è un altro must have per Paolo. Lo troviamo al quinto piano di un centro commerciale nuovo di pacca, seguendo la folla in coda agli ascensori. Il negozio Nintendo. Ci facciamo largo tra un mare di appassionati, completamente lobotomizzati dalla foga di avere qualsiasi gadget possibile immaginabile dei loro beniamini dei videogiochi. Mentre Paolo da fondo al suo budget, mi sorbo venti minuti in coda per prendergli un portachiavi edizione limitata da una macchina per le palline.

    Usciamo dal centro commerciale e non facciamo neanche cinquanta metri che rientriamo subito in un negozio Muji di cinque piani. Compriamo vestiti e stupidate che a casa ci sarebbero costate il doppio. A differenza degli altri giorni, oggi il caldo è sempre tanto ma c’è un po’ di vento, che rende stare fuori più sostenibile. Saliamo verso il quartiere di Harajuku, consigliatoci come il quartiere retail, pieno di negozietti di moda. Cose bellissime, ma costose. Ci ripromettiamo di tornarci la prossima volta con molto più budget. Beviamo una coca cola speziata da Yoshi Cola e risaliamo Harajuku in cerca di cibo, infilandoci nell’ennesimo centro commerciale e trovando dei falafel con topping di carne vegetale e una terrazza con la vista sull’incrocio principale, attraversato da centinaia di persone ogni minuto.
    Ci perdiamo tra le viette di Harajuku, scoprendo ad ogni angolo negozi di marche sconosciute grandi solo qualche metro quadrato ed entriamo infine a Takeshita Street. È sabato, l’inizio della festa della montagna in Giappone (ergo, weekend lungo, ergo vacanze) e la strada è letteralmente invasa di gente. Ci si muove venti centimetri al minuto, sgomitando tra ragazzine impazzite per portachiavi fuffosi di criceti, persone di tutte le età invasate per le action figures dei manga ma soprattutto turisti indemoniati a caccia dell’ennesimo souvenir. Il tutto intervallato da puppy bar dive, pagando una bella somma, puoi bere il caffè abbracciando gatti, cani, maialini e perfino lontre.
    Rintronati dal caldo e la confusione, scappiamo da Takeshita street, prendiamo l’ennesima metro per l’albergo. Lasciamo in camera zaini e acquisti della giornata, ci laviamo e cambiamo e ripartiamo subito.

    Sono le sei: il sole in Giappone tramonta presto, e voglio vedere se si riesce a fare una bella foto al tramonto sulla Tokyo tower dalle colline di Roppongi, ma veniamo delusi dalle nuvole che nel frattempo si sono formate in cielo, la vista non proprio spettacolare sulla città e le decine di ragazzine che si fanno i selfie sulle statue di Doraemon in giro per la piazza.
    Rientriamo subito in metro e attraversiamo la città in direzione Asakusa. Avevamo letto prima di partire che oggi, essendo festa, ci sarebbe stata una cerimonia particolare con le lanterne di carta sul fiume Sumida.
    Arriviamo giusto in tempo per vedere già centinaia di turisti ammassati sulla banchina alta del fiume a fotografare le lanterne accese sull’acqua.
    Cerchiamo invano un punto di accesso alla riva ma più andiamo avanti, più le speranze si assottigliano finché non incappiamo in un ragazzo dell’organizzazione che, in giappo-inglese, dice di proseguire ancora per la riva.
    Troviamo l’accesso, dove già c’erano decine di persone in coda ordinata che aspettavano in proprio turno per entrare. Decidiamo di risalire la coda per venti, cinquanta, cento, duecento metri. Non finiva più, anzi, faceva una curva e ritornava indietro per altri duecento metri. Non sapendo che altro fare, mi metto in coda anche io, mentre Paolo va in giro in cerca di un combini per comprare del cibo. La fila è anche sostenuta, ci si sposta velocemente ma sembra comunque una cosa infinita. Inoltre ogni coppia o gruppetto di persone che vedo attorno ha in mano la stessa lanterna di cartone gialla: mi prende l’ansia che, dopo tutta quella coda, non ci facciano neanche entrare perché sprovvisti di lanterne. In un’altra circostanza avrei desistito subito. Odio le file e passare un’ora senza la certezza di sapere se saremmo riusciti a vedere qualcosa sulla riva del fiume prima che finisse tutto mi infastidiva. Ma guardandoci attorno abbiamo notato che chiunque in fila era paziente e calmo, felice e scherzoso. Non c’era nessuno in ansia, che spingeva, che protestava. Così mi sono calmato, abbiamo aperto le lattine birra che intanto Paolo aveva trovato e, pazienti, abbiamo camminato in fila fino all’entrata della banchina. Nessuno ci ha detto nulla. Scendiamo sulla riva e lo spettacolo è incredibile: decine di lanterne che galleggiano sull’acqua nera del fiume, con i riflessi della città e del gigantesco skytree di sfondo.
    Più avanti era stato creata una struttura a scivolo dove una ventina di ragazze dell’organizzazione prendeva le lanterne della gente, le accendeva e le faceva scivolare fino al fiume, mentre gli altoparlanti recitavano le preghiere. Rimaniamo incantati dal momento così magico, leggendo negli occhi delle persone la spiritualità del gesto di lasciare la loro lanterna scritta dei buoni propositi e il senso di comunità delle persone che aiutavano affinché tutto si realizzasse con ordine e serenità.
    Un bell’insegnamento per noi occidentali chiassosi e schiavi del tutto-subito.

    Risvegliati dal momento, proviamo a girare per le strade di Asakusa in cerca di cibo ma, stanchi e non particolarmente affamati, ci accontentiamo di un tramezzino alle uova del seven eleven e torniamo in albergo.
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  • Nikko in tre ore

    11 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 30 °C

    Ci svegliamo prestissimo, facciamo colazione svelti e alle otto e mezza siamo già arrivati alla stazione dei treni di Asakusa.
    L’obiettivo della giornata è visitare Nikko, una cittadina a due ore di treno a nord di Tokyo, tra le foreste, con una serie di templi patrimonio dell’umanità.
    A casa, al momento di prenotare i vari spostamenti, avevamo trovato la soluzione perfetta in uno di quei siti dove raccolgono le esperienze da fare quando sei in viaggio: pass di due giorni per Nikko che per la modica cifra di 17€ in due ti concedeva il treno andata e ritorno da Tokyo, più gli spostamenti in autobus per il paese.
    In stazione mostriamo quindi il pass ai controlli, ci avviamo verso il binario e una graziosa signora ci ferma per ricontrollarlo. Ci spiega che il pass che avevamo comprato era valido si, ma non per il treno express diretto: avremmo dovuto cambiare tutta una serie di treni locali per riuscire ad arrivare a Nikko. Potevamo si pagare la differenza, ma ovviamente essendo domenica, in mezzo ad un ponte festivo in Giappone, gli unici posti disponibili sarebbero stati sulla corse delle 11.
    Delusi dalla situazione e con poca voglia di aspettare, accettiamo la sfida di fare i cambi: fotografiamo il percorso che la signora aveva già preventivamente scritto con gli orari e le stazioni e ci buttiamo sul primo treno in partenza.
    La corsa, invece di durare due ore, ne dura ben quattro. Cambiamo cinque treni, ne sbagliamo uno a metà e torniamo indietro per una tratta e ci buttiamo dentro carrozze a caso cercando di seguire le tracce su Google maps. Fortunatamente, non abbiamo mai incrociato un controllore, nè probabilmente avremmo dovuto farlo: quando hai un tornello per il biglietto alla stazione d’entrata e uno a quella d’uscita e di base sei un paese che per cultura segue le regole, non è necessario controllare.
    Arriviamo quindi a Nikko che è già l’una del pomeriggio.
    Fortunatamente, essendo più alto rispetto a Tokyo, la temperatura è più bassa di qualche grado, sempre caldo ma già più sopportabile.
    Durante le tratte, per non dover più cascare nel tranello del ritorno lungo un’odissea, abbiamo preso i biglietti online dell’express ma, ovviamente essendo domenica, l’unico disponibile era alle quattro del pomeriggio. Il che significava che la nostra giornata a Nikko sarebbe durata solamente tre ore.
    Dalla stazione ai templi ci sono circa un paio di chilometri di strada da fare a piedi, in leggera salita, sotto il sole. Pensiamo quindi di prendere furbamente l’autobus (tanto avevamo il pass) ma dopo un quarto d’ora e cinquecento metri di traffico, smontiamo e ce la facciamo a piedi.

    Arriviamo alla zona dei templi di Toshogu, detti Shrine. Saltiamo con soddisfazione una coda chilometrica per entrare avendo fatto il biglietto online durante le quattro ore di treno, remori dell’errore del mattino.
    Il parco dei templi è meraviglioso: costruzioni in legno decorate di rosso verde e giallo, raffigurazioni di draghi, scimmie e uccelli dappertutto. Partecipiamo pure ad una lezione di preghiera nella costruzione principale, seduti in ginocchio sul tatami.
    Siamo affascinati dalla storia e la pace che trasmette il posto, al fresco sotto l’ombra di sequoie altissime.
    Il tempo stringe, ridiscendiamo la strada principale in cerca di cibo veloce: ci infiliamo in un ristorantino dove fanno diversi piatti a base di yuba, la pellicina commestibile che si crea facendo fermentare il tofu. Il ristorante è mandato avanti da sole donne, con ovviamente quelle più anziane impegnate in cucina.
    Prendiamo un caffè e un dolce in una bakery appena più avanti e ci dirigiamo in stazione. Il treno per Tokyo fila via veloce tra le foreste, che diventano campagne e tornano ad essere piano piano sobborghi e infine centro città con i grattacieli.

    Scendiamo sotto lo skytree, la torre più alta di Tokyo. Perdiamo un’ora a cercare nel suo infinito centro commerciale il Kirby Cafe scoprendo che poi non era possibile accederci senza prenotazione. Sul piazzale/giardino sotto la torre però avevano allestito panche e gazebo per un festival, probabilmente in concomitanza con la festività della montagna. Ci prendiamo così un paio di birre e aspettiamo le otto di sera, seduti su una panchina e osservando stanchi la torre colorata.

    Alle otto entriamo nel basamento e saliamo in ascensore fino al 45esimo piano, a 350 metri di altezza. La vista sulla città illuminata lascia senza fiato. Proviamo a ritagliarci uno spazio tra le decine di turisti in posa per i selfie per apprezzare la grandezza di questa megalopoli infinita. Il biglietto, che avevamo prenotato sempre durante le quattro ore in treno del mattino, comprendeva anche la salita al deck più in alto: prendiamo quindi un secondo ascensore che ci spara per altri cento metri in su. Il mare di luci e palazzi si estende a 360 gradi. Tokyo è veramente enorme e di sera da sicuramente il meglio di se.

    Scendiamo dallo Skytree affamati. Fatichiamo come sempre a trovare qualcosa di vegetariano neo dintorni senza per forza doverci spostare con la metro, così optiamo per un’italianissima pizza, mentre la nazionale di pallavolo femminile vince l’oro olimpico.
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  • Odaiba

    12 augusti 2024, Japan ⋅ 🌬 33 °C

    È il nostro ultimo giorno a Tokyo e ovviamente il dispiacere di lasciare questo universo così vario e affascinante si mischia alla trepidazione di scoprire un Giappone più autentico. Per l’ultima mattinata ci siamo tenuti il sud della città, promettendoci ancora una volta di viverla con tranquillità senza la pressione di dover/voler vedere tutto.
    Prendiamo la metro per il giardino di Hama Ryku, sbucando in mezzo ai grattacieli di quello che sembra essere il centro finanziario: monorotaia alta, passaggi pedonali sopraelevati, pulizia dappertutto ma soprattutto poche persone perché è ancora vacanza in Giappone. Senza saperlo, scopriamo una enorme bellissima scultura di Miyazaki a forma di orologio, ispirata al castello errante di Howl.
    Scendiamo verso il parco cominciando ad accusare la calura, sono appena le nove e mezza del mattino e il sole batte già forte sulla testa. Entriamo al parco e ci infiliamo subito all’ombra degli alberi. Il posto è veramente splendido: un’isola naturale pacifica circondata dai grattacieli, blu e verde che si fondono al sole. Camminiamo sul punte in legno che divide il laghetto centrale, visitiamo una piccola casetta rurale e usciamo ributtandoci in centro.

    Prendiamo la monorotaia per Odaiba assieme ad altre decine di persone, che si riversano fuori al sole assieme a noi una volta arrivati all’isola. Odaiba sembra essere un concentrato di tutto ciò che può attirare un giapponese durante un giorno di festa: centri commerciali e concerti.
    Scattiamo l’ immancabile selife sotto il Gundam gigante e ci immergiamo nella folla del centro commerciale alla ricerca di quello che Google maps diceva essere un negozio tematizzato studio Ghibli, ma che si rivela più piccolo di quello che avevamo visto sotto lo Skytree. Decidiamo di fare rifornimento di magliette e mutande da Uniqlo e scappiamo dalla bolgia, riprendendo la monorotaia. Vicino al Teamlab planets Paolo aveva trovato un ramen vegetariano, ma una volta arrivati li scopriamo che lo avrebbero servito all’aperto sotto il sole. Impossibile con quel caldo. Facciamo allora un’altra fermata di monorotaia e ci buttiamo dentro l’ennesimo centro commerciale alla ricerca di un po’ di fresco, dove troviamo posto in un ristorantino a buffet di verdure a “chilometro zero”.
    Il caldo di oggi è veramente insopportabile, decidiamo così di rientrare verso l’hotel per riposarci un attimo e preparare le valigie in vista del trasferimento a Kanazawa.
    Mentre “sorvoliamo” le isole con la monorotaia per rientrare verso il centro di Tokyo, non ci manca da riflettere su questa parte più nuova e futuristica della città: come i film di fantascienza, Odaiba e le varie isole vicine hanno proprio quel sentore di città iper tecnologiche, dove tra i grattacieli finestrati si aprono a terra spazi verdi rigogliosi e grandi aree pedonali. Le auto quasi non si vedono, e la sensazione è di un posto pulito e rispettoso dell’ambiente. Una contraddizione enorme rispetto al centro città dove ogni due metri c’è un ristorante: forni accessi e aria condizionata a palla, quantità infinite di carne e pesce consumate ogni secondo, distributori di bottigliette in plastica ogni venti metri ma quasi zero cestini e quasi mai differenziati.

    Dopo una doccia corroborante e dopo aver fatto entrare tutti i nostri acquisti in valigia, usciamo in cerca di cibo a Shibuya. Il quartiere dalle mille luci ci affascina ancora una volta, con le sue vie piene di giovani, i localini pieni, le sale giochi chiassose.
    Seguiamo le indicazioni su Google per un piccolo ristorante vegan che scopriamo essere nel livello sottoterra dello stesso centro commerciale del Nintendo store. Il posto è un po’ spartano e semplice rispetto agli altri ristoranti sicuramente più invitanti ma che servono solo carne, ci ritagliano pure un tavolino e due sgabelli praticamente in cucina ma alla fine mangiamo le polpette di soia più buone della nostra vita, ricoperte di una salsa all’uovo strepitosa.

    Usciti dal centro commerciale, visto che la notte è giovane, cerchiamo un posto dove bere qualcosa. Ci va male la prima volta, infilati al secondo piano di un ristorante senza finestre che puzza di fritto, ci va male la seconda volta, quando ci chiudono in faccia un locale bellissimo su un rooftop che dava sullo Shibuya crossing, per cui lo prendiamo come segno del destino e ce ne torniamo in albergo.
    L’ultima notte a Tokyo, domani il viaggio continua.
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  • Kanazawa

    13 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 31 °C

    Ci svegliamo presto con l’ansia da partenza. Facciamo la nostra ultima colazione con l’ennesima frittata al ketchup e French toast untissimo, prendiamo le valigie e prendiamo la metropolitana in direzione della stazione di Tokyo. Arriviamo con larghissimo anticipo per essere sicuri di poter prevenire qualsiasi tipo di sventura visti i trascorsi con Nikko. In realtà la cosa si fa molto semplice: abbiamo il nostro qr code inviatoci dal sito, lo scannerizziamo in una macchinetta con il simbolo dello Shinkansen, ne vengono fuori due biglietti (che scopriamo dopo andranno obliterati insieme), di passa il tornello e si va al binario. Tutto qua.
    L’ansia vera e propria arriva quando alla fila per entrare nel vagone ci si accodano un sacco di persone con valigie grandi. Mi rileggo sul sito le regole e scopro che avremmo dovuto prenotare anche lo spazio per loro ma, convinti le avremmo fatte spedire tra un albergo e l’altro non me ne ero preoccupato. In realtà poi avevamo scoperto che per la tratta Tokyo-Kanazawa non si sarebbero potute spedire in giornata, così alla fine ce le siamo tenute.
    Fortunatamente però l’arrivare in anticipo ci ha fatto posizionare come primi a salire nella carrozza per cui, facendo finta di nulla, appoggiamo le valigie negli spazi designati e ci sediamo pregando che nessuno venga a lamentarsi.
    Il treno parte morbido e silenzioso. In men che non si dica siamo nei sobborghi di Tokyo, gli stessi che vedevamo dal treno per Nikko. Ma è quando lasciamo la città che il treno comincia a prendere velocità e diventare un vero e proprio proiettile. Lo sfondo viaggia così veloce che le campagne diventano presto boschi, montagne, cittadine e dopo meno di due ore si vede il mare sull’altro lato del treno.
    Scendiamo a Kanazawa poco prima di mezzogiorno. Cerchiamo subito il modo per andare in albergo: niente metropolitana qui, solo autobus. Ma non c’è nulla scritto in inglese. Ci mettiamo così a confrontare i pittogrammi con quelli indicati da maps, troviamo il bus giusto e scopriamo con sorpresa che la Suica (la carta per i trasporti di Tokyo) a Kanazawa non funziona. Al contrario, c’è da ritirare un piccolo biglietto all’entrata del bus e pagare la corsa (lo scopriamo in seguito) mentre si scende.
    Arriviamo a fatica all’albergo. Come sempre il check in è alle tre, lasciamo quindi le valigie e andiamo subito in esplorazione.
    Fortunatamente non dobbiamo fare tanta strada sotto il sole: dall’altro lato dell’hotel infatti troviamo una piccola scaletta che ci porta in uno dei quartieri più iconici della città, le residenze dei samurai.
    Passeggiamo per le viette tranquille, delimitate da vecchi muri in paglia e fango. Ci ricordano tantissimo gli anime di a Doraemon o Kiss me Licia. Il sole è alto e cocente, tutto attorno calma e silenzio sovrastato solo dal cigolio incessante delle cicale. Visitiamo una delle case, raccomandata dai nostri amici Paola ed Edoardo quando ci erano passati in viaggio di nozze. Il posto è grazioso, curato, tatami ovviamente ovunque e un bellissimo giardino interno. Tra le piante verdi intense e in parte accese dalla luce del sole, una piccola cascata che scroscia dolcemente in un laghetto con carpe enormi colorate. Un vero e proprio angolo di pace. La casa ha anche un piano superiore, dove si ha la possibilità di ammirare di nuovo il giardino e la serenità che emana.

    Si è fatta ora di pranzo. Usciamo dal quartierino dei samurai per riavvicinarci alla strada principale, dove troviamo posto in un locale completamente vegetariano. Con sorpresa scopriamo di essere gli unici clienti e, per allietarci il pranzo, la proprietaria mette in filodiffusione della musica italiana. Sulle note di Arisa mangiamo dei burger vegetali di funghi e tartufo, bevendo una strada cola speziata.

    Andiamo verso il palazzo reale, arroccato all’interno di un bellissimo parco curato e pieno di fiori. Il palazzo in se è una ricostruzione molto recente, apparentemente nuova, ma al suo interno fa capire esattamente quali erano gli spazi di cinquecento anni fa. Il caldo comincia di nuovo ad essere fetente, cerchiamo refrigerio ad ogni finestra o angolo all’ombra. Visitiamo il meraviglioso giardino del palazzo e ci fermiamo a prendere un gelato in un bar appena fuori, prendendo in giro due ricchi italiani con la guida privata giapponese che provano ignari il loro primo the matcha.

    Proviamo a trascinarci quindi nei quartieri antichi della città, trovando purtroppo tutti i negozi in chiusura. Siamo spossati e un po’ delusi dal posto, così in autobus torniamo verso l’albergo.
    Vista l’impossibilità da Tokyo a Kanazawa di spedire le valigie lo stesso giorno e, visto che ci saremmo fermati lì per due notti, avevamo pensato a tenerci in una borsa separata l’occorrente per una notte e far spedire di nuovo le valigie a Kyoto, questa volta in due giorni. Purtroppo però al banco ci informano che questo non sarebbe stato possibile, che non li avrebbero fatto arrivare in due giorni bensì in tre. Saliamo in camera quindi con i dubbi, ma alla fine decidiamo di proseguire con il piano, ma tenendoci più cambi nella valigia leggera e spedire il resto a Kyoto comunque.

    Usciamo dopo una doccia rigenerante. Nel frattempo a Kanazawa aveva piovuto giusto qualche minuto, ma abbastanza da rendere la temperatura più che accettabile. Ci fermiamo a cena in un ristorantino sulla strada, proprio quello che ci era un po’ mancato nei giorni scorsi avendo trovato solo posti dentro i centri commerciali. Li ci cuciniamo sulla piastra in mezzo al tavolo un okonomyaki buonissimo, con funghi shiitake al burro.
    Usciamo soddisfatti ma puzzosissimi da fritto.
    Facciamo giusto due passi attorno al quartiere dei ristorantini e proviamo un gelato al quadruplo cioccolato prima di rientrare in hotel.
    Domani sveglia presto.
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  • Shirakawa Go

    14 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 28 °C

    Sveglia alle sei, dopo una brutta notte col naso chiuso a causa dei continui sbalzi caldo freddo e dall’entrare nei bus gelati tutti sudati.
    Facciamo colazione in albergo con pain au chocolat, lasciamo le valigie in reception da spedire a Kyoto e, con una sacca sulle spalle, ci avviamo in autobus verso la stazione di Kanazawa.
    Qui un poliziotto gentile ci porta verso i locker room dove lasciamo la sacca e ci infiliamo in un nuovo autobus, assieme ad altri gruppi di italiani. Lasciamo Kanazawa alle 8:10 puntuali per dirigerci verso le montagne. Le risaie presto diventano foreste e in poco più di un’ora e mezza siamo a Shirakawa Go, paesino storico sul fondo di una vallata, patrimonio dell’unesco. Il paesino è un vero museo all’aperto, fatto di casette storiche in legno con tetti di paglia spessa almeno mezzo metro.
    Scegliamo subito di camminare verso l’osservatorio panoramico in alto, capendo che le “poche” persone attorno sarebbero diventate centinaia in poche decine di minuti. Scattiamo foto e ridiscendiamo la strada tra le risaie e la foresta. Il cielo per fortuna è coperto, ma l’umidità qui è difficilmente sopportabile, già dopo venti minuti da quando siamo scesi dal bus abbiamo le magliette pezzate. Giriamo tra le casette, in un clima di pace generale, con i piccoli fazzoletti di terra tra una e l’altra pieni di piante di riso quasi pronto per la mietitura. Il perenne suono di cicale che ormai ci accompagna da Tokyo e centinaia di libellule che ondeggiano sopra le risaie e i fiori.
    Visitiamo il museo nel museo: una serie di casette tenute apposta per raccontare la storia del villaggio e delle sue usanze.
    Per sfuggire al caldo, ci rintaniamo in un ristorantino dentro al parco, mangiando soba fredda e in brodo caldo. Non sapendo quanto sarebbe stata lunga la visita, avevamo prenotato il bus di ritorno per Kanazawa per le 15:00, ma eravamo già provati dell’umidità e avevamo finito di girare tutto due ore prima. Così ci trasciniamo in giro per il villaggio e mangiamo schifezze prese al combini. Comincia a piovere, tanto. Shirakawa sotto la pioggia mostra una sua seconda anima, ancora più affascinante, ancora più pacifica. Osserviamo un airone pescare un pesce nello stagno e mangiarselo in un sol boccone, ci riposiamo dieci minuti sulla prima panchina al coperto che troviamo e, finalmente, risaliamo sul bus. Durante il ritorno non riusciamo a tenere gli occhi aperti e ci risvegliamo a Kanazawa con la fretta di voler arrivare al ryokan che avevamo prenotato per la sera il prima possibile.
    Scegliamo la soluzione più veloce: due fermate di treno fino a Marimoto e dieci minuti in taxi fino al ryokan.
    Il personale del Motoyu Ishyia ci accoglie con inchini e ringraziamenti. Ci chiedono gli orari con cui avremmo voluto cenare e far colazione e ci accompagnano in visita del posto. Il ryokan è una locanda old style, dove si può provare una vera esperienza giapponese. È una di quelle cose irrinunciabili per chi visita il Giappone ed effettivamente il posto è incredibile. Una grande casa che, a tratti, ricorda la città incantata di Myiazaki. Proviamo subito l’onsen, una sorta di bagno termale con tre vasche di acqua bollente. È obbligatorio stare nudi nell’onsen ed è l’unico posto dove ci si può lavare dopo le fatiche e le sudate della giornata, sedendosi su piccoli sgabelli di plastica.
    Rigenerati dalle terme, ci vestiamo con gli appropriati kimono dell’albergo e ci dirigiamo alla sala da pranzo dove ci è stato riservato un angolo privato. La cena è tipica giapponese con pesce e carne, sfortunatamente il ryokan aveva declinato la possibilità di offrirci un pasto totalmente vegetariano ma, ricordandosi, i camerieri ci hanno poi sostituito le portate di carne con funghi e verdure, mentre un po’ di sashimi di pesce ahimè abbiamo dovuto mangiarlo (ed era purtroppo buonissimo).

    A fine cena torniamo nel l’onsen per rilassarci ancora nell’acqua termale, talmente bollente che si resiste solo una decina di minuti dentro.
    La notte la passiamo dormendo per terra, su dei piccoli materassi apparecchiati dallo staff sopra il tatami.
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  • Verso Kyoto

    15 augusti 2024, Japan ⋅ ⛅ 36 °C

    Ci svegliamo con tutta calma nel ryokan.
    La colazione che ci propongono è tipica giapponese, con un sacco di cose viscide, strane e tanto pesce, che facciamo veramente tanta fatica a mangiare a queste ore.
    Ci concediamo un altro onsen di dieci minuti, per provare a vedere se il caldo e i fumi dell’acqua termale servano a qualcosa contro il mio raffreddore che nella notte è peggiorato.
    Ci prepariamo con calma e riprendiamo il taxi verso la stazione, non prima di aver ricevuto decine di ringraziamenti dallo staff che, una volta saputo che giocavo a pallavolo, ci hanno anche regalato delle caramelle alla soia.
    Con tranquillità prendiamo il treno da Maromoto a Kanazawa, dove aspettiamo la coincidenza di due ore per lo Shinkansen facendo una seconda colazione da Starbucks e girando per i negozietti del centro commerciale.
    Il viaggio in Shinkansen è tranquillo e veloce: sfrecciamo per i campi di riso a velocità esagerata fino ad arrivare a Tsuruga, dove prendiamo un altro treno veloce, il Thunderbird, fino a Kyoto.

    La stazione di Kyoto è affollata e rumorosa. Decidiamo di non fermarci per pranzo e di comprare qualcosa al combini giusto da spiluccare più tardi, prendiamo la metro e dopo solo una fermata usciamo nel traffico della città. Kyoto da subito sembra diversa da Tokyo: non si vedono mega grattacieli, le cose in generale sembrano meno recenti, al tempo stesso compaiono più spesso locali e ristoranti con la vecchia facciata in legno tradizionale.
    L’albergo che abbiamo scelto invece è una vera e propria chicca: nuovo, ben tenuto, con il self check in. Con un giorno d’anticipo inoltre sono arrivate le valigie da Kanazawa, per cui tutto benone.
    Molliamo tutto in camera e riusciamo subito nella calura del pomeriggio: prendiamo la metro e un treno verso sud, scendendo alla stazione di Inari. L’entrata al tempio di Fushimi Inari Taisha è un mare di turisti: qui c’è un famoso percorso fatto da più di mille torii, le tradizionali porte che precedono i templi shintoisti, donate nel tempo dalle persone che hanno avuto fortuna nella vita per ringraziare gli dei. Già solamente l’avvicinarsi all’entrata del percorso farebbe desistere chiunque con il sole rovente che batte sulla schiena e la folla chiassosa, ancora peggio sono le prime decine di metri dentro i torii, passate a scansare influencer e turisti che si fermano ad ogni passo a farsi foto.
    Fortunatamente la scalata al monte Inari ha delle stazioni intermedie, e già alla prima il cinquanta percento delle persone desiste per il troppo caldo. Saliamo ancora, sperando di beccare momenti senza passanti per farci anche noi qualche foto, non sapendo che sarebbe bastata un’altra stazione e un paio di bivi sul percorso per ritrovarci praticamente da soli. L’atmosfera è surreale, ci addentriamo in quello che è segnato come luogo di preghiera, fatto da piccoli mausolei in pietra arroccati sotto il bosco fitto e decorati con piccoli torii in legno rosso. Il silenzio è solo coperto dai nostri passi sulla ghiaia e le cicale che ovviamente stridono forsennate.

    Il percorso si addentra talmente tanto nel bosco che ad un certo punto è addirittura buio, illuminato solo da lampioni. Fa più fresco, anche se l’umidità è sempre alle stelle, in più cominciamo a percepire la stanchezza nel salire delle scale interminabili.

    Arriviamo alla cima del monte Inari, sotto un cielo azzurro pieno di nuvole bianche veloci. Il sole sta calando e i mausolei sulla punta del monte hanno un’aria solenne. Per questa volta cediamo alla tentazione e lanciamo delle monetine nella scatola delle offerte del tempio, facendo il rito di ringraziamento: due inchini con le mani in preghiera (io in velocità ne ho fatto uno) due battiti di mani e un altro inchino.

    Scendiamo il monte per un percorso diverso, con tutta scioltezza e molto più al fresco che all’andata.
    Sbagliamo la fermata del treno del ritorno, così ci sorbiamo una lunga camminata non prevista, ma come sempre, tutto ciò che avviene per caso può essere un segno dell’universo: ci godiamo infatti una bellissima passeggiata sul lungofiume, ammirando la città che pian piano accende le luci. Rientriamo in albergo a lavarci e usciamo velocemente, dopo aver notato su Google che i ristoranti chiudono presto la sera. Facciamo una lunga camminata di nuovo fino al fiume, superiamo il ponte e ceniamo in un piccolo ristorante vegano con sushi vegetale e poke di carne di soia.

    Per digerire facciamo una lunga camminata nel quartiere di Gion, sperando di incrociare qualche geisha come ci avevano consigliato gli amici. Troviamo invece solo buttafuori all’entrata di ogni palazzo, che probabilmente ospitavano delle sale da te lussuose.

    Ci trasciniamo un po’ più avanti, giusto il tempo di beccare un templio tutto illuminato e la famosa stradina con la grande pagoda che ho visto per anni negli esercizi di compositing a BigRock.

    Torniamo in albergo alle undici. Siamo cotti, ma c’è ancora un’ultima cosa da fare e non si può rimandare: abbiamo finito mutande e magliette pulite. Cacciamo tutta la biancheria sporca e ci incamminiamo verso una lavanderia a gettoni a qualche isolato dall’albergo.
    A mezzanotte siamo ancora lì, seduti su sgabelli di plastica, nell’afa totale, ad aspettare che il nostro bucato si lavi ed asciughi.

    Rientriamo in stanza a mezzanotte e mezza, crollando a letto.
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  • Obon

    16 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 31 °C

    Ci svegliamo rilassati. La stanza dell’hotel di Kyoto è proprio bella e fortunatamente sono riuscito a respirare, dopo tutti i fazzoletti di carta che avevo consumato il giorno prima.

    Il tempo non è dei migliori: il cielo è coperto, fa caldo ma c’è una leggera brezza che toglie l’afa e rende tutto più sopportabile. Scopriamo in seguito che quella leggera brezza era in realtà la coda di un tifone che si stava abbattendo su Tokyo.
    Prevedendo tanti templi, cerchiamo di prendercela con molta calma: prendiamo un bus che ci porta a nord del centro. Visitiamo il giardino del tempio di Higashiyama, assieme ad altre decine di turisti. Un posto sereno, curato, con addirittura i giardinieri accucciati che tolgono con le pinzette le erbacce ad una ad una.

    Ispirati da quella calma, all’uscita del giardino ci scostiamo dalla calca della gente per intraprendere una stradina pedonale chiamata “Philosoper’s path”. Per le prime decine di metri troviamo come al solito negozietti e ristorantini, ma appena superata la zona turistica, siamo praticamente soli a percorrere questo sentierino sterrato accanto ad un fiumiciattolo lento e basso. L’atmosfera è di nuovo pacifica e silenziosa. Troviamo anche per strada il Monk, la pizzeria giapponese famosa per la puntata di chef table che Paolo ha visto almeno tre volte.
    La nostra camminata solitaria e rilassante termina al templio di Nanzenji dove, dopo una sosta all’ombra della grandissima porta, visitiamo l’interno, fatto di antiche stanze con le pareti dipinte e raffiguranti draghi, aironi e tigri.
    Rimaniamo colpiti però dai giardini zen all’interno del tempio buddista: proprio come ce li eravamo immaginati, spazi dalla calma quasi sacra, con isole di muschio e alberi, circondate da un manto di ghiaia rastrellata alla perfezione simboleggiando il mare.
    C’è una pace infinita a camminare tra i corridoi aperti di questo posto, rialzati tramite palafitte da un giardino armonioso e colorato. Forse durante la fioritura dei ciliegi c’è più spettacolarità, ma il e Paolo concordiamo abbiamo fatto bene a visitare il Giappone in agosto: non avremmo mai visto tutto questo verde così saturo.

    Si fa ora di pranzo: troviamo da sederci sotto una piccola pertica all’entrata di un parco e mangiamo gli onigiri presi due giorni prima al combini e ne affoghiamo subito il sapore di pesce in ottima coca cola presa da uno dei migliaia di distributori automatici dispersi per la città.

    Torniamo verso il quartiere di Kyomizu, visto vuoto la sera prima. Al contrario nel primo pomeriggio è invaso dai turisti. Nuotiamo nella folla che si ferma ad osservare ogni negozietto di souvenir sui lati o a mangiare spiedini di mochi alla fragola glassata.

    Ci fermiamo cinque minuti al volo nel negozio dello studio ghibli e alle due meno un quarto ci infiliamo in una casa con giardino zen a appena sulla strada. Lì avevamo prenotato una lezione di the matcha così, assieme ad altri italiani ed americani, assistiamo alla bellissima cerimonia fatta da una maestra del tè, in una piccola sala con vetrate che danno sul giardino giapponese. L’esperienza è stata incredibile: ogni movimento della cerimonia era studiato e pesato, senza essere fatto con troppa foga o troppa lentezza. Una sensazione di pace e risoluzione. Bellissimo.
    Abbiamo fatto anche noi il nostro matcha, pesando ad occhio la polvere, aggiungendo acqua calda nella ciotola, mescolando con l’apposito passino e prendendo con due mani la ciotola ruotandola due volte in senso orario prima di bere.

    Usciti dalla casa del tè, ci allontaniamo dalla folla di turisti per tornare verso il centro città.
    Facciamo una capatina veloce al Nintendo Store e al Pokemon Center per prendere qualche regalino e torniamo in albergo a lavarci.

    Oggi è il 16 agosto: in Giappone da più di 800 anni c’è una festività che ricorre in questi giorni chiamata Obon. È un po’ come il dia de los muertos in Messico, ma dura più tempo. Il 16 agosto si festeggia la fine del periodo dell’Obon con un rituale molto speciale: il gozan no okuribi. Vengono realizzate delle costruzioni in legno sulle montagne attorno alla città a cui si dà fuoco ad un’ora precisa della sera, disposte in modo da disegnare alcuni simboli propizi che, secondo la credenza dovrebbero servire come segnali di direzione verso l’aldilà per gli spiriti degli antenati tornati sulla terra a trovare i loro cari durante l’obon.

    Per non perdere questo spettacolo ceniamo in camera con sushi vegetale e tramezzino all’uovo del combini, ci vestiamo e ci dirigiamo in pullman verso quello che, a detta dei blog, sarebbe stato il punto migliore per vedere almeno uno dei cinque simboli sulle montagne, quello più famoso oltretutto.

    Nell’arrivare alla sponda del fiume, veniamo però attratti da della musica. La seguiamo dentro un vicolo e scopriamo una festa del quartiere dove al centro di un grande spiazzo c’è una sorta di palco con alcuni ragazzi che battono un tamburo gigante a ritmo, mentre decine di persone di tutte le età gli danzano attorno, eseguendo brevi ma coinvolgenti coreografie. L’atmosfera di festa è incredibile, tutti sono felici e impegnati nel ballare. Dalle nonne ai bambini, un vero e genuino momento di comunità in festa.
    Si fanno però le otto: lasciamo la sagra per raggiungere il fiume, giusto in tempo per vedere la collina di fronte a noi, dopo la città, illuminarsi di fuoco. Un altro spettacolo emozionante e unico.
    Ci stappiamo due birre e ci sediamo a contemplare le centinaia di persone, vestite perlopiu a festa con kimono colorati, passeggiare davanti a noi.
    Rientriamo giusto in tempo per vedere (e partecipare) all’ultimo ballo della festa comunitaria.

    Una serata da ricordare.
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  • Le due facce di Kyoto

    17 augusti 2024, Japan ⋅ ☀️ 32 °C

    Tutte le guide, i video , gli influencer sono d’accordo su una cosa: per vedere la foresta di bamboo di Arashiyama senza gente fare le foto perfette per Instagram devi svegliarti a ore impossibili ed essere lì all’alba. Per quanto sia bellissimo fare queste cose e sono il primo se serve ad alzarmi presto… abbiamo fatto già troppe levatacce in questi giorni, così rinunciamo al momento Instagram e raggiungiamo in treno con molta calma il quartiere più ad ovest di Kyoto.
    Come volevasi dimostrare la foresta è una città continua di turisti in modalità selfie, bisogna sforzarsi tanto per eliminare il loro brusio dalla mente e concentrarsi sulla bellezza della foresta, per poi scoprire che in realtà il percorso dura qualche decina di metri. Un po’ delusi ci incamminiamo per uscire dal marasma e, dopo poco troviamo il negozio che mi ero segnato qualche giorno fa, incastrato tra gli alberi di una piccola foresta: un piccolo laboratorio di ceramica specializzato nella realizzazione dei tanuki, i simpatici procioni giapponesi che abbiamo visto esporre spesso in giro fuori dalle case o dai ristoranti. Sono in generale segno di buon auspicio e ce ne siamo innamorati ancora di più guardando a casa il film Pom Poko dello studio Ghibli.
    Senza pensarci due volte, adottiamo così il nostro tanuki da portare a casa.

    Ci spostiamo per le stradine vuote, silenziose e meravigliose dei sobborghi di Arashiyama, lontani dal traffico e dai turisti. Scopriamo per caso un piccolo santuario nascosto e per 300 yen passeggiamo per il suo piccolo giardino giapponese, completamente ricoperto di muschio, illuminato dai raggi del sole filtrati tra le foglie di acero verde.
    Passiamo ad un altro templio, questa volta buddista, con un cimitero fatto da una moltitudine di pietre verticali messe vicine come piccoli dolmen. Scopriamo che anche questo posto ha una piccola scalinata dentro una foresta di bamboo, ma al contrario di quella famosa, qui ci sono poche persone ed è più godibile.

    Ritorniamo verso le vie principali e prendiamo un bus che ci porta ad un’altra attrazione molto turistica: la residenza dorata di Kinkaku. Bellissima, questa costruzione ricoperta da foglia d’oro si staglia su un laghetto pacifico con carpe colorate e… turisti ammassati alle transenne per fotografare e fotografarsi. Facciamo veloci tutto il percorso evitando a slalom italiani e spagnoli con sempre qualche decibel in più degli altri e usciamo di corsa dal parco.
    Comincia a sentirsi la fame ed è rispuntato il sole, picchiando ferocemente sulle teste.
    Sfortunatamente il primo ristorante vegetariano che avevamo puntato si rivela chiuso. Stanno festeggiando ancora l’obon. Riprendiamo un altro bus e ci spostiamo verso il centro, trovando un altro posticino molto carino famoso sembrerebbe per i piatti con il sesamo. Mangiamo noodle caldi piccanti e riso con crema di curry.

    Il caldo di fa sentire ma, piuttosto che rimandare, ci giochiamo le cartucce di energia che rimangono prima andando a rendere omaggio al palazzo dove è nata Nintendo, quando ancora realizzavano carte da gioco prima di Super Mario e poi al tempio di Kiyomizu Dera, strapieno di persone. Esploriamo la gigantesca costruzione in legno e beviamo l’acqua porta fortuna in una delle tre sorgenti.

    Torniamo lentamente in albergo, doloranti dalla lunga camminata. Ci laviamo e usciamo subito per cenare in qualche posto raggiungibile da un bus senza camminare. Altro ristorante chiuso, ci arrendiamo ad un burger veggie in una catena di fast food giapponese e torniamo in albergo a sistemare le valigie per Osaka.
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