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  • Day 3

    Planare

    March 16 in Italy ⋅ ⛅ 15 °C

    Il viaggio vero e proprio è terminato, ma non posso non soffermarmi sulle buone vibrazioni che la terza giornata mi ha trasmesso.
    Mi sono svegliato presto e come un ninja mi sono preparato silenziosamente per non disturbare i due coinquilini. Mentre mangiavo uno snack in cucina ho conosciuto Giulia, una ragazza di Bergamo che è venuta a fare una gita in Liguria. Lei ama camminare, ha fatto tra le altre cose il cammino di Santiago e sa il fatto suo in termini di avventure. È sempre bello conoscere persone che condividono con noi la passione per l’avventura, in qualsiasi sua forma.
    Non faccio in tempo a fare colazione all’ostello, mi devo dirigere verso la stazione dove mi attende il treno per Sanremo. Mentre mi insinuo in certe viuzze della città mi rendo conto che questa Genova sa un po’ di Marsiglia: sporca e pericolosa, bellissima a tratti ma da brividi, si incrociano certi sguardi…
    Il viaggio fila liscio, sono sospeso tra realtà e sogno, mentre il mare scorre fuori dal finestrino, azzurro e potente nel suo silenzio.
    Sbarco a Sanremo, la città con la stazione più bizzarra di tutte: ci sono solo due binari, ma sono separati dall’uscita della stazione da un tunnel chilometrico, ci vogliono almeno 6/7 minuti per percorrerlo tutto.
    La città brulica di gente, è una giornata splendida, ne troppo fredda ne troppo calda. C’è eccessiva confusione però, ed i preparativi per l’arrivo della Milano-Sanremo di certo contribuiscono ad alimentarla. Così opto per una sgambata lungo la ciclabile che costeggia il mare. Lungo il percorso, quasi all’altezza del Poggio, c’è un locale, La Vesca, dove il mio amico Diego mi ha consigliato di fermarmi a fare colazione. Ed effettivamente merita, specialmente per la vista sul mare e su tutta Sanremo. Qui mi rilasso davanti ad un cappuccio ed un croissant, ascoltando un po’ di musica e contemplando la mia serenità. È una mattinata stupenda, il sole mi da vigore e tutto mi sembra meraviglioso.
    Decido poi di fare un sopralluogo al Poggio, per assicurarmi che non abbiano già bloccato il traffico. È ancora tutto tranquillo, ma non mi va di tornare indietro e tuffarmi di nuovo nel fermento della città. In più vedo un sacco di ciclisti che mi sfrecciano di fianco e si buttano sulla salita. Voglio sentirmi parte anche io di questo pellegrinaggio di appassionati, così imbocco a mia volta la salita. E quindi eccomi li, felice, a salire con il mare al mio fianco e la gioia negli occhi. Mi sento importante, e mi sento parte di un qualcosa di indefinito e grande, qualcosa che mi riempie il cuore. Si respira proprio una bella atmosfera: di festa, di primavera, di leggerezza. Più salgo più il mio sorriso si apre e abbraccia ogni cosa.
    In un attimo di rivelazione individuo pure il punto in cui voglio fermarmi a vedere i corridori passare. Piazzo la bici a bordo strada vicino al guard-rail, mangio qualcosa e aspetto. Un’attesa infinita (i corridori non arriveranno prima di 3/4 ore), un’attesa durante la quale si edifica lentamente, quasi impercettibilmente lo spirito della manifestazione. Piano piano la gente trova la propria postazione, i ciclisti amatoriali continuano a salire a decine, chi bello rilassato chi a tutta. Arrivano anche i ragazzi di un fan club di un ciclista a me sconosciuto; ma non importa, perché l’atmosfera si fa sempre più festosa e sale anche un po’ la tensione per l’imminente passaggio della corsa e per il suo esito. I minuti che precedono il passaggio sono pura adrenalina: quando i commentatori annunciano che i corridori hanno attaccato il Poggio, sento il cuore che mi esplode nel petto, non riesco più a contenere questa bellissima tensione. Sono ancora lontani, ma è come se riuscissi già a vederli, a percepirli con tutti gli altri sensi mentre infuriano sulla salita. Poi arrivano veramente ed è un attimo, un istante in cui cerchi di catturare la potenza sprigionata da quella massa quasi uniforme che si sposta. A 30 km/h su due ruote sottili.
    E poi tutto finisce, un’estenuante attesa per vivere pochi secondi di gloria. Non vince nemmeno Pogačar, ma non importa, sono contento, tutto è stato perfetto, ho riscattato definitivamente le fastidiose cattive vibrazioni del primo giorno e mezzo di viaggio.
    Finita la gara, la folla rompe le righe e si disperde giù per la riviera. È ora di andare al camping. La rampa in discesa per raggiungerlo me la ricordo benissimo. Stefano il proprietario invece si ricorda di me, e mi accoglie paternamente. Siamo fuori stagione e posso addirittura scegliere la piazzola dove piantare la tenda, che privilegio! Prima della doccia ho anche il tempo di godermi il tramonto dall’amaca appesa nella piazzola. La vista del mare è sempre emozionante, ti fa sentire piccolo piccolo, ma allo stesso tempo amplifica quella sensazione di aver fatto qualcosa di importante e unico che rimarrà sempre impresso nella tua memoria, con tutto il pacchetto di emozioni annesso. Perché sono le sensazioni, le emozioni soprattutto che si imprimono indelebilmente nel nostro animo. Il mare, specialmente al tramonto, è il tramite attraverso cui posso spingere il mio sguardo all’infinito, abbandonarmi totalmente ad un sentire sincero, senza filtri, senza se e senza ma. Il mare al tramonto è la porta per sognare in grande, e per emozionarsi.
    Dopo la doccia invece mi siedo al tavolino con vista mare che c’è fuori dal bagno, e sto lì a guardare qualcosa d’indefinito e ad aspettare una rivelazione, un segnale, un’emozione, qualsiasi cosa che possa scaldarmi il cuore. E ad un tratto mi rendo conto che c’è un gran frastuono: sono le rane che gracidano in coro da qualche parte. A tratti sembrano rivolgere delle disperate lamentazioni al mare che tutto sa ma che nulla rivela; a tratti invece sembrano rivolgersi alla città, anzi all’umanità intera e prendersene gioco ridendo a crepapelle. Io sono il semplice spettatore di questo meraviglioso spettacolo, e quasi provo tristezza per il fatto che tutti le altre persone laggiù non possano ascoltare queste rane e godersi questo miracolo. Tutto mi appare magico, questo momento è perfetto; è un momento di sintesi.
    In campeggio ci sono anche due ragazzi francesi, una coppia. Come al solito, quando viaggio perdo gran parte delle mie inibizioni, riesco a non sentire il peso della percezione della mia inadeguatezza. E così mi faccio avanti e mi presento. Facciamo due chiacchiere e scopro che sono partiti da Sete, vicino a Montpellier, e in otto mesi vogliono arrivare a Capo Nord. Pazzi! Dei pazzi sono, ma amo il loro progetto e glielo confesso.
    La comunicazione tra viaggiatori è sempre molto semplice (ma non banale), molto immediata e non contaminata da certe sovrastrutture. Si parla in maniera schietta, e si sogna insieme, si viaggia sulle stesse lunghezze d’onda, si instaura subito un certo feeling.
    I ragazzi sono gentilissimi e mi invitano a stare tutti insieme durante la cena. A fine serata ci facciamo anche una foto insieme, un ricordo speciale per me. Una volta ancora provo quel senso di profonda connessione con qualcuno, anche se so che probabilmente non ci si vedrà mai più; ognuno per la sua strada, per la sua vita. Giustamente e dolorosamente. Questo è il bello e il brutto di questi incontri. Che in ogni caso ti arricchiscono più che la maggior parte dei rapporti superficiali che hai quotidianamente con le persone.
    Mi sento felice e penso che la vita è bella, è un bel casino che ti stordisce, ti fa malissimo ma ti regala anche momenti stupendi e densi di significato. Life is pain au chocolat. Buonanotte cari amici. Purtroppo avendo aspettato cosi tanto a scrivere, certe impressioni, certe sensazioni sono sbiadite se non addirittura svanite. Perciò il racconto è un po’ scarico, non è così “impressionista”, ma piu ragionato per la difficoltà di risalire a certi momenti, a certe impressioni appunto.
    Purtroppo stavolta ho pagato la mia pigrizia. Però dai, qualcosa ho scritto e qualcosa rimarrà di questa breve ma intensa fuga.
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  • Day 2

    Umidi umani

    March 15 in Italy ⋅ ☁️ 13 °C

    Al risveglio il corpo è abbastanza indolenzito, specialmente la parte bassa della schiena. Considerando che mi aspettano altri 112 km con più di 1600 m di dislivello, le premesse non sono buone. Comunque non mi perdo d’animo, anzi c’è voglia di riscatto dopo una prima giornata vissuta cosi e cosi. Troppe distrazioni, troppe scorie da smaltire forse, troppe sovrastrutture che mi hanno impedito di connettermi al viaggio e di disconnettermi certi vizi che odio, ma che sono così difficili da correggere. Fatto sta che voglio godermi il più possibile questa seconda tappa.
    La colazione riabilita il corpo e lo spirito. Il signore che mi ospita (purtroppo non so il nome) è super gentile e mi lascia un sacco di cose da mangiare, ed insiste per farmi portare via due banane e un pezzo di focaccia che ha comprato apposta per me. Mi consiglia anche un posto dove mangiare lungo il tragitto (il rifugio dei cacciatori a Montebruno).
    Ultimo la preparazione della bici e parto, rinvigorito dal pasto e un po’ più ottimista riguardo alle sorti di questa seconda giornata: continuo a ripetermi che le salite le farò con calma, se ci sarà bisogno la spingerò anche a mano la bici. Non sento nemmeno troppo l’ansia di dover rincorrere il tempo. Arriverò quando arriverò, in ogni caso arriverò. Questo è lo spirito.
    Il sole non si fa desiderare alla partenza, anzi, per essere mattino fa quasi caldo. Dopo due km arrivo a Bobbio e non posso fare a meno di attraversare il ponte del Diavolo e di togliermi la soddisfazione di una foto con la bici e il ponte sullo sfondo. Poi si parte veramente. Onestamente ero un po’ scettico riguardo ai panorami che avrebbe potuto offrirmi questa seconda giornata, svolgendosi per buona parte sulla statale che si snoda lungo la valle. Mi immaginavo già macchine che mi sfrecciavano a pochi centimetri e vista ostacolata dai guard-rail. E invece sono stato smentito subito. La strada non era per niente trafficata e pericolosa e ho potuto godermi i continui sali e scendi, anzi molto scendi e poco sali. L’unica nota negativa: i semafori per via dei lavori lungo la statale; rossi interminabili e ritmo continuamente spezzato, ma fa niente.
    Le uniche due preoccupazioni sono il tempo e le salite. Il tempo perché all’orizzonte sull’Appennino vedo addensarsi nubi. Le salite perché, alla luce della crisi che ho avuto il giorno prima, oggi ho l’ansia da prestazione.
    Per quanto riguarda il tempo, ci ho azzeccato. Superato Montebruno affronto il primo gpm serio, che mi porta a più di 1000 m di quota. Qui piove e c’è pure foschia, gli occhiali si appannano e l’umidità della pioggia penetra fin dentro il mio spirito. Il paesaggio è spettrale, irreale, sembra quasi di essere sospesi in un tempo e in un luogo indefiniti; mi sembra che questa salita, a tratti molto impegnativa ma non impossibile, non porti da nessuna parte. Ed effettivamente in cima non trovo quasi nulla, solo case sporadiche e nemmeno una traccia di umanità. Mi sento strano, mi domando cosa sto facendo, chi me l’ha fatto fare. Mi sento perso, piccolissimo in mezzo a un mondo piovoso. Mi fermo a mangiare al termine del secondo gpm impegnativo, sotto la pioggia e col freddo che paralizza ogni buona sensazione. Vorrei essere a casa, non essere mai partito. Le mani sono congelate e impregnate di umidità. Mi rimetto in sella sperando che la salita duri ancora un po’, di modo da riuscire a scaldarmi. E invece ecco che scollina, e allora giù in mezzo a pioggia e foschia, senza la minima sensibilità alle dita che pinzano sui freni.
    Più procedo più aumenta la sensazione di smarrimento, è un momento difficile in cui devo concentrarmi tantissimo per non ricadere in una crisi di nervi. Non so dove mi trovo, non so dove sto andando, sto solo seguendo una strada tutta rotta in mezzo alle montagne e i boschi. L’atmosfera è straniante, mi sento piccolo piccolo in mezzo al nulla, in un non-luogo che sembra aver cacciato via con la forza ogni forma di vita animale. Qui la natura sembra aver ribadito dopo un’estenuante lotta chi è che comanda, si sta riprendendo i suoi spazi sgretolando lentamente ogni frutto dell’arroganza umana. Ogni tanto raggiungo piccoli agglomerati di case (non me la sento di definirli paesi, paesini o frazioni) che non hanno senso di esistere, è impossibile che qualcuno abbia dsciso di costruire ed abitare qui. Questi posti secondo me non esistono nemmeno sulle mappe, sono solo invenzioni del mio delirio. Ma comunque è tutto pazzesco, è talmente surreale la situazione che sono un misto tra il divertito e il disperato. A tratti mi dico che non me ne frega niente della mia sorte, se sono destinato a perdermi tra questi monti vuol dire che doveva andar così. Ad un tratto sono diventato fatalista ed ora mi sento veramente in un’avventura. Se ci penso bene, sto facendo qualcosa di fantastico.
    Poi ad un tratto senza darmene conto la civiltà si palesa di nuovo, progressivamente e dolcemente. La strada si allarga, si assesta di nuovo, e viene ripopolata da automobilisti. Le tracce umane si fanno sempre più preponderanti. Un cartello alle porte di un paese sancisce l’arrivo a Genova, ma la città non si vede nemmeno all’orizzonte, nessuna traccia nemmeno del mare tanto atteso. Si, ufficialmente è Genova, ma manca ancora tutto un lungo tratto di (liberatoria) discesa su una strada che serpeggia tra piccoli paesi e frazioni portandomi lentamente ma inesorabilmente giù nell’inferno della civiltà. Genova si manifesta per gradi: prima annuso la periferia, poi assaggio un po’ di traffico peri-cittadino, e infine sono catapultato nel caos. Subito rimpiango la durezza della desolazione montuosa, ma sono comunque felice perché anche oggi ce l’ho fatta, a discapito del mio pessimismo. Ho persino il tempo di imboccare la ciclabile che costeggia il lungomare e di raggiungere Boccadasse, e di vedere l’ultimo spiraglio di sole che fende coi suoi raggi nuvole di piombo. È ora di dirigersi all’ostello, la giornata è stata lunga e ho voglia di una doccia e soprattutto di una pizza. Genova è inquietante di sera, o perlomeno la zona in cui mi trovo, vicino alla stazione Brignole: ho la sensazione di essere osservato e seguito, tant’è che uscito dalla pizzeria affretto il passo per arrivare il prima possibile all’ostello. Una volta in camera, scambio due chiacchiere con il mio vicino di letto. Si chiama Vincenzo, è di Napoli ma studia e lavora a Bologna come medico. Mi ha fatto piacere conoscerlo.
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  • Day 1

    Dis-connesso

    March 14 in Italy ⋅ ☁️ 17 °C

    Alla fine la pigrizia ha prevalso. Ho continuato a rimandare il momento di scrivere e alla fine eccomi qui, a narrare gli eventi e le sensazioni del 14 ma dopo due giorni. Troppe sensazioni si sono succedute e accavallate, e quel che resta è una confusione totale. Tuttavia cercherò di fare un po’ d’ordine.
    La prima metà del primo giorno è andata bene, anzi benissimo: sono partito con un sole timido che però già prometteva di vincere la sua timidezza durante la giornata. La gamba poi era bella sciolta e così i primi 60-70 km sono volati. Lo so, era anche tutto pianeggiante e soprattutto sapevo dove andare, avendolo già fatto quel pezzo. Inoltre l’attraversamento della città è stato meno complicato che in altre occasioni: in pratica ho tracciato una lunga linea retta in direzione sud-ovest, ho trafitto il centro storico con un fendente trionfante e cosi via, verso l’infinito e oltre. La prima metà è stata però anche la più noiosa: di fatti la conoscenza del tracciato ti velocizza, ma toglie anche quel brivido dell’ignoto che solo le strade battute per la prima volta sanno dare.
    Fatto sta che dopo un sosta per la spesa al Conad sono ripartito fiducioso. Il tempo di attraversare il Trebbia e di superare Rivalta e il suo castello, e già ho avuto i primi sentori che da li in poi non sarebbe stato cosi semplice. Comincio una salita lieve e mi meraviglio di quanto il posto che sto attraversando mi faccia pensare alla Contea. Distratto da questa piacevole suggestione quasi mi perdo una svolta repentina che mi porta sul primo (e forse unico vero) off-road. Non sarebbe un problema se non fosse che le piogge insistenti delle ultime settimane lo hanno trasformato in una trappola di fango: la bici affonda nella melma, le ruote slittano e ad ogni salitella mi impantano e devo portare la bici a mano, con bestemmie annesse. Il tutto non mi impedisce di godere della meraviglia del paesaggio: sono completamente solo, in un boschetto sperduto da qualche parte nella val trebbia. Sono eccitato dall’avventura ma anche preoccupato. Gli smadonnamenti proseguono fino all’uscita dalla “trappola”. La strada torna ad essere praticabile e, dopo una breve salita, mi si apre una vista mozzafiato sulla vallata circostante. È il luogo perfetto per la meritata pausa pranzo.
    Non faccio in tempo a ripartire che arriva quello che poi si è rivelato il momento piuttosto critico del viaggio. Parte una salita, e fin qui ok: granny gear e su a 5/6 km/h. A un certo punto però il Garmin mi fa prendere una deviazione dalla strada principale, e quasi me la perdo perché stavo curando da lontano il ragazzo in bici che mi ha superato quasi ad inizio salita. La inforco ed ecco che la salita diventa una rampa: comincio ad annaspare, la vista tutti i sensi mi si annebbiano; sbando, quasi cado dalla bici e mi devo arrendere e portarla (a fatica) a mano. Mi mancano proprio le forze, mi sento svuotato di ogni energia vitale. Il che mi preoccupa, perché i km che restano sono ancora parecchi e io in questo momento vorrei solo bere e collassare da qualche parte. In qualche modo arrivo in cima alla rampa, dove incontro di nuovo il ragazzo di prima che mi rivela che lui quella salita non la farebbe nemmeno al contrario (cioè in discesa ahah) e che era meglio stare sul tracciato principale. Uno scambio di battute e riprendo il cammino, rincuorato dalle sue parole. Col senno di poi, l’ho fatta fuori dal vaso, e avevo tutte le ragioni per sentirmi a pezzi su una salita del genere. Ciò non mi toglie una fastidiosa apprensione per i rimanenti gpm: ormai sto attento ad ogni variazione di pendenza, il mio corpo è ormai tarato al millimetro. Sulle salite più leggere la mano tende a portare il cambio su rapporti più lunghi, ma poi la mente urla frena gringo dove cazzo vai, sali piano ma sali, ci vuole pazienza.
    Questa è la filosofia che mi accompagna per i km restanti. I gpm arrivano ma li affronto piu serenamente. È un continuo saliscendi, attraverso una valle incantevole, quasi fuori dal tempo, irreale sospesa in un sogno. La luce del sole illumina un paesaggio ondulato dal quale si ergono ogni tanto degli spuntoni di roccia sui quali sono arroccate piccole fortezze e bastioni. Mi sembra di essere nel medioevo e non mi stupirei se da un momento all’altro mi superasse un cavaliere al trotto. Tra tutte le vette ce n’è una in particolare che spicca, il monte Bogo, che sembra volermi sfidare mentre arranco sulle salite che la cingono. È un continuo salire e scendere, scendere e salire, senza mai arrivare in vetta.
    Ogni tanto mi ritrovo sul dorso di una collina e non riesco a trattenere un piccolo urlo di gioia.
    Due considerazioni lungo questo ultimo tratto. Primo, credo di aver sviluppato un feticismo per gli alberi isolati nel paesaggio: l’albero solitario e stoico mi fa impazzire. Secondo, chi l’ha detto che i cimiteri sono luoghi privi di vita. Nei cimiteri si trova l’acqua, e l’acqua oggi è la mia salvezza, la mia linfa vitale!
    Alla fine senza quasi accorgermene, dopo un ultimo tratto prevalentemente in discesa che mi riporta a livello fiume, giungo a Piancasale, la tappa intermedia del viaggio. Sono esausto e un posto comodo, intimo e tranquillo è quello che mi ci vuole per rigenerarmi. L’host del b&b è gentilissimo e disponibile, ha addirittura comprato delle banane apposta per me, sapendo che sto viaggiando in bici. Mi doccio, mangio qualcosa, mi corico e collasso nel letto davanti alla tv. Domani è un altro giorno.
    In tutto questo ho dimenticato di dire una cosa fondamentale: le sensazioni e lo spirito oggi sono stati negativi. Per tutto il giorno non sono riuscito a connettermi con il viaggio, a settarmi sulle frequenze giuste, ero troppo distratto dall’ansia di dover catturare il momento giusto da condividere su quei cazzo di social. Ed il risultato è che metá delle foto che ho fatto mi fanno cagare. Troppo tempo attaccato a quel cellulare, troppo tempo cazzo.
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  • Day 4

    Conclusions

    January 30 in Italy ⋅ ☁️ 6 °C

    So che oggi non ho pedalato, ma ho bisogno di chiudere il cerchio. Mi sono svegliato col sole: ero felice, ma anche un po’ rammaricato perché non avrei potuto godermelo in sella sulla mia Poderosa. Comunque, dopo una abbondante colazione a buffet, sono andato al molo alla ricerca di un ultimo scatto; col senno di poi, forse avrei fatto meglio a godermi semplicemente la vista e il silenzio tormentato del mare.
    Poi dritto alla stazione, treno intercity diretto, che lusso! Il viaggio è stato tranquillo, mi sono rilassato ascoltando un po’ di musica, riscoprendo tra l’altro le buone vibrazioni di “Pet Sounds” dei Beach Boys. Una signora si è seduta di fianco a me a Cesena: un po’ fastidiosa, però ho mantenuto la calma e abbiamo scambiato due battute. Mi ha detto che stava andando in Africa, ma non avevo voglia di parlare, così lo spunto di conversazione si è perso nel nulla. Non l’ho nemmeno salutata quando me ne sono andato, ma ormai non mi stupisco più di me stesso.
    Anche oggi un pensiero, quel pensiero, viene e va: io non sono un viaggiatore, sono solo un privilegiato. Io viaggio in prima classe, con una bici fighissima, prendo intercity diretti da 38€ e dormo con un tetto sopra la testa tutte le notti. No, i viaggiatori sono altri. I viaggiatori sono apolidi, non hanno radici, non hanno soldi, non hanno nulla da perdere, se non le loro certezze. Si lanciano all’avventura senza paura, non pensano troppo al domani, non devono programmare e pianificare, devono solo andare. Io no, ho radici ben piantate e mi sposto, fuggo ma con l’ansia di dover sempre arrivare da qualche parte, in un punto preciso, devo giungere ad una fottuta meta. Ma io non vorrei mai arrivare, io vorrei andare, sempre e per sempre, fino alla fine. Vorrei fosse la morte l’unica meta. E invece il richiamo di casa mia è troppo forte, sento il fastidioso bisogno di ritrovare la sicurezza e il comfort delle mie routine. Io alla fine ci sto bene in questa comoda trappola che è una non-vita scandita dal male delle convenzioni.
    Non sono un viaggiatore, sono solo un disperato che fugge da se stesso, dalla prigione che si è costruito. Alla quale però poi torno sempre perché sono un codardo, perché in fin dei conti ci sto bene in questa prigione.
    Io sono l’opposto del viaggiatore, sono solo l’ombra di qualcuno che vorrei ma che non potrò mai essere.
    In più vedo le immagini dei telegiornali che mostrano l’orrore che c’è nel mondo, e mi sento ancora più misero. Mi sento inutile e impotente, mi sembra di rubare la libertà e la gioia di qualcun altro che la meriterebbe più di me. Perché io la sto sprecando.
    Forse un giorno mi guarderò indietro e riuscirò a trovare un significato. Tutto ciò che ho fatto prima o poi mi apparirà sensato; ma al momento no, non so cosa sto facendo.
    Però so ancora emozionarmi: tra Lodi e Crema ho avuto uno di quei momenti in cui tutto è troppo intenso, in cui il mix di emozioni è così letale che l’unico modo per sopportarle è scoppiare in lacrime. E cosi è stato anche questa volta. Mi sentivo perso e devastato, ma anche fortissimo e felice. Era tutto un gran casino. È tutto un fottuto casino qui dentro.
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  • Day 3

    Sali, impreca, scendi.

    January 29 in Italy ⋅ ☀️ 6 °C

    Tante, troppe sensazioni; troppi spunti di riflessione che se non annoto subito si perdono nel flusso impetuoso del mio pensiero. Vabbè, provo comunque a fare un recap.
    La tappa di oggi è stata difficile, forse più a livello mentale. Ma si sa, se la mente soffre anche il corpo la segue come un segugio. Paesaggisticamente molto più bella di quella di ieri, anche perché oggi finalmente è uscito il sole! In realtà mi sono svegliato immerso nella nebbia, ma si percepiva che era una nebbia più scarna, più magnanima, che avrebbe sciolto il suo abbraccio letale e avrebbe consegnato la libertà al sole.
    Ma andiamo con ordine. Dopo una colazione buona ma insufficiente, mi sono preparato in modo molto zen e sono partito attorno alle 8:40. Non ho fatto in tempo a fare i primi 5 km che già ho dovuto affrontare la prima salita di giornata: un continuo saliscendi, rampe alternate a super-discese, leitmotiv di tutta la prima metà di tappa. Scalare e imprecare, poi giù a testa bassa in discesa e urlare di gioia. Le gambe sono in fiamme, l’ansia sale perché quei km non aumentano mai. Però il paesaggio è spettacolare. Una volta in quota, perforo la foschia e il sole illumina una vista a 360 gradi su una distesa di colli che sbucano dalla soffice bruma: come se la campagna si fosse trasferita sopra le nuvole, per trovare un po’ di pace, una tregua dall’uomo. Ad un certo punto, mi scopro ad affrontare una salita sulla cresta di uno di questi colli. Un cane randagio sbuca dal nulla: un fantasma, una visione, che sembra puntarmi ma poi mi passa di fianco e si avventa su un’immaginaria preda nascosta nell’erba. Che bello vedere la libertà nei suoi occhi, nei suoi gesti.
    La prima salita termina e scollino verso Castrocaro Terme. La filosofia è sempre quella: lambire, mai attraversare e penetrare arrogantemente un posto; sembra saperlo anche il Garmin, che non si arrischia a propormi un itinerario più “culturale”. Ma all’uscita del paese, ecco che sperimento a mie spese le imperfezioni della tecnologia. Vengo ingannato e trascinato su una rampa di fango che si perde nella nebbia. Non vedo la cima, sembra l’ascensione di un penitente verso il Monte Olimpo, verso un fantomatico paradiso, o verso un inferno di nebbia. Sono costretto a scendere dalla bici e spingerla a mano; scivolo, impreco, annaspo, impreco di nuovo, mi fermo e riprendo fiato, provo ad intuire e a sperare in una cima, poi finalmente tutto finisce. Finisce però anche il mio stoicismo: da questo momento in poi ogni minimo dislivello sarà fonte di imprecazioni e maledizioni. Sali scendi, sali scendi, sali sali e scendi… basta! Non ne posso piú! Il panorama però mi ripaga di tutto l’immane sforzo che mi sembra di compiere. Queste colline ti cullano l’anima, i loro dorsi dolci e levigati ti invitano alla calma, alla pazienza, alla gioia di vivere. Tra strade bianche, sentieri, asfalto sconnesso e single track, delineo il profilo di questo paradiso che circonda Forli. Alla fine scolino e torno sui cari vecchi bei provincialoni. Un po’ mi siete mancati, mi dico, ma presto mi trovo già pentito. Il rumore delle auto che ti sfrecciano di fianco, lo spostamento d’aria prodotto dai mammut del terzo millennio, sono fonte di stress. Sono totalmente concentrato a portare a casa la pelle, non mi è concesso di godere della campagna che sto attraversando.
    Arrivo a Cesena all’ora infernale, quella dell’uscita delle scuole. Per fare un km mi ci vogliono quasi dieci minuti. Poi finalmente torno in campagna, su un gravel piacevole che costeggia un canale e che soprattutto passa dietro a un paio di centri abitati. È bello osservare il dietro le quinte delle case della gente, vedere la parte forse più intima del loro abitare. Non so, mi sembra di avere accesso alla parte più autentica di questi paesi.
    La strada si srotola per la campagna cesenate; mi fermo sull’argine del canale a mangiare il mio panino con la marmellata, dopo aver deciso di raggiungere i miei genitori a Cesenatico. I luoghi si fanno sempre più familiari, sono gli stessi che ho assaggiato l’anno scorso insieme a Egon. Ed eccomi sul Porto Canale della città, ed ecco i miei genitori che mi sorridono da dietro il vetro di una piadineria. È bello vederli in questo contesto, anche se mi sento un po’ “sospeso”, perché in realtà la tappa non è ancora terminata, l’appuntamento vero è per questa sera a Rimini per mangiare tutti insieme.
    Ad ogni modo, a Cesenatico l’atmosfera è particolare: rarefatta, sospesa, galleggiante in una foschia dorata che le conferisce un fascino felliniano. Poca gente che passeggia verso il molo, silenzio e pace dei sensi. Ma devo andare. Il tempo di fare un paio di foto da mandare a Egon e sono di nuovo settato sui 20 orari verso Rimini. Il sole cala, la foschia avanza e investe di nuovo il litorale. L’atmosfera si fa spettrale km dopo km. Attraverso Igea Marina e l’impressione è quella di una città popolata da fantasmi che appaiono dal nulla al mio passaggio. Probabilmente, se mi girassi indietro una volta che li ho superati, non vedrei altro che la strada deserta.
    Si accendo i primi lampioni, si spengono piano piano le luci di questo breve viaggio. Ed ecco Rimini, finalmente. Sono abbastanza stanco e mi dirigo direttamente all’hotel. Il tempo di sistemarmi e docciarmi, poi esco e vado a cenare a Borgo San Giuliano con la mia famiglia. Inizialmente mi pento di avergli proposto questa reunion fuori confine, dal momento che come al solito mio papà e mio zio sono entusiasti come un fiore su una lapide. Ma una volta seduti davanti a un bel piatto di pappardelle, ogni incazzatura si dirada come la foschia di questi giorni e lascia spazio a un sorriso e ad un serata piacevole. Abbiamo il tempo anche per un rapido giro in centro città. Sempre bella e affascinante Rimini, peccato per la nebbia. Risaliamo in macchina, torniamo all’hotel, ci salutiamo. Sono felice, per me e per loro. Gli voglio bene e sono questi i ricordi che voglio avere di loro e insieme a loro.
    In questi momenti piacevoli non posso fare a meno di pensare al futuro, a quando non ci saranno più… e mi assalgono una tristezza e un’amarezza profonda, perché so che è inevitabile e che non posso fermare il tempo. Posso solo cercare di rendere speciale ogni momento passato insieme. E portarli per sempre dentro al cuore. Dio quanto mi mancheranno…
    Fine del viaggio signori, è stato un piacere, come al solito…
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  • Day 2

    Pale Foggy Sun

    January 28 in Italy ⋅ ☀️ 9 °C

    La colazione è servita alle 7:30, direttamente ospite in casa dei proprietari. Cerco di non sentirmi in imbarazzo, ma è più forte di me. Però riesco comunque a scambiare qualche battuta con i coniugi e con il figlio, che ci raggiunge dopo (ps: quando parla in dialetto non riesco a capire nulla). Pago, ringrazio, mi congedo, finisco i preparativi, mi vesto ed esco. Nebbia. Tanta troppa nebbia, di quella che ti mette addosso il male di vivere. La nebbia è straniante, appiattisce tutto, anche il mio entusiasmo.
    La prima parte di tappa è piatta appunto, in tutti i sensi. Tra Argenta e il paese successivo navigo per lungo tratto su una striscia di terra fangosa che si perde nel nulla. Non c’è dislivello, la strada si srotola lenta e umida su una distesa di nebbia pianeggiante. Quello che mi stupisce è la quantità di casolari abbandonati che supero lungo il percorso. Casolari su casolari, con cancelli che ormai non proteggono più nulla.
    Gli occhiali si riempiono di goccioline di condensa, il morale non è né basso né alto, è piatto come tutto il resto. Sono un po’ nervoso perché capisco che sto attraversando posti e paesaggi sicuramente pazzeschi, ma non riesco a vederli per la quantità di foschia che c’è.
    Arrivo ad Imola (circa metà del percorso di oggi) nella più totale indifferenza, mia e della cittadina. Le mie emozioni, come prevedibile, sono annichilite dal solito dilemma che occupa gran parte dei miei viaggi: cosa e dove mangerò? Nel frattempo lambisco le porte della città, senza addentrarmi, senza nemmeno la voglia di curiosare per le vie del centro. Forse è il troppo freddo, forse è la nebbia, forse sono io. La scusa che ripeto a me stesso è che queste città, in generale i medio/grandi centri urbani sono luoghi perduti: centri storici circondati, quasi intrappolati dalla modernità, cemento su cemento.
    Passo sotto l’autodromo, e qui si comincia ad assaggiare un po’ di salita. La prima è sempre la più devastante, forse perché si ha un ricordo distorto ed “idilliaco” dei dislivelli passati. Fatto sta che non sono mai pronto alla prima. E infatti fatico, sbaglio rapporto, impreco, maledico la mia infelice idea di questo viaggio. E in più la nebbia (manco a dirlo) amplifica quella percezione per cui la salita sembra non finire mai, perché in questo caso la fine non si vede proprio. Cerco di indovinare, di sperare in una fine. Forse arriverà prima la mia, di fine. Poi però arriva anche la discesa, e quella sensazione di sollievo quando senti i muscoli delle gambe che mollano la presa e si rilassano è impareggiabile. Tra continui sali scendi e una discesona finale, arrivo a Riolo Terme. Pausa pranzo al chiosco La Vecchia Stazione del Corriere, proprio vicino all’ufficio postale. Sembra che io abbia il fiuto per questi posti “da postino”. Pranzo a base di hamburger e patatine. Il locale è strano, ci sono richiami al sud america, all’argentina in particolare. Scopro poi che il cuoco è sposato con una argentina, e tutto torna.
    È bello perché un viaggiatore su due ruote desta sempre un po’ di curiosità nella gente. Il cuoco infatti attacca bottone e mi chiede dove sono diretto. Poi mi rivela che anche lui vorrebbe viaggiare in bici, nel paese nativo della moglie magari.
    Mi ha fatto piacere questa breve conversazione, ha compensato un po’ quella sensazione di imbarazzo che percepisco quando entro in un locale in qualità di forestiero. È come se non sentissi il diritto di star li, di rompere in qualche modo la quotidianità del posto… boh, forse sto scrivendo troppe cazzate.
    Una volta ripartito mi vengono in mente delle domande per il cuoco. È sempre così: a scoppio ritardato mi prende la curiosità di fare domande. Per esempio: dove si sono conosciuti lui e sua moglie, qui in Italia o in Argentina? Non lo saprò mai.
    Si riparte. Uscito da Riolo, la strada arrampica ancora. E qui apprezzo la differenza tra affrontare una discesa a stomaco vuoto ed affrontarla con la pancia piena. E con il sole pure. Si perché è uscito anche lui! Inizialmente un po’ timido a Riolo, poi abbastanza spettrale dietro al velo mortale della nebbia; ma poi finalmente convinto si è lanciato fuori, quasi si fosse ricordato del magnifico potere rigenerante che ha. Si fatica comunque, ma lo spirito è un altro. Mi scappa anche un breve urlo liberatorio, e mi viene in mente “I’ll follow the sun” dei beatles. Altra salita, altro discesone, e stavolta si giunge a Brisighella, che deve essere un borgo piuttosto carino, anche se l’ho visto di sfuggita (giusto la piazza principale, ma anche la rocca sembrava figa), dal momento che si è insidiata in me la preoccupazione di non riuscire ad arrivare prima del buio alla meta (come al solito poi, sono stato smentito… ma non imparerò mai). La tappa poi prosegue liscia, senza particolari emozioni, anche se adesso la gamba è tornata agile e il mio umore è di nuovo settato sulle frequenze giuste. Anche se ad un tratto un pensiero fastidioso si fa strada: io sono troppo borghese per viaggiare in bicicletta. Le mie non sono avventure, sono solo capricci di una persona triste e annoiata, che vuole fuggire, evadere, allontanare la quotidianità perché non riesce a vedere il bello della semplicità. È vero, il viaggio in bici mi libera da certe zavorre. Ma vorrei viaggiare per uno scopo più nobile, assaporare più profondamente i posti che scorrono davanti ai miei occhi. E invece per me l’importante è solo andare, spingere su quei pedali e nulla più. Non me ne frega niente di quello che vedo, mi interessa solo fare foto accattivanti da postare su Instagram. Viaggio con una bici da 2000€, dormo in hotel e mangio al ristorante. Questa non è una avventura. Io sono un privilegiato. I viaggiatori sono altri. Forse un giorno, quando capirò (che cosa capirò?) li rifarò questi viaggi e li vedrò veramente questi posti. O forse semplicemente ripenserò a tutto ciò che ho fatto e riuscirò a trovarci un senso. Ma per il momento no, per adesso devo solo andare, stare sempre in movimento e lambire il mondo, dargli un’occhiata superficiale e disinteressata.
    Vabbè, in tutto questo verso 17:30/18 arrivo al B&B appena fuori Faenza, lungo la via Emilia. Fine della giornata. Non prima di essermi abbuffato in camera.
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  • Day 1

    ¡Coge el tren!

    January 27 in Italy ⋅ ☀️ 10 °C

    Come spesso mi capita, quando arriva il momento di partire non sono per niente convinto di quello che sto facendo. Mi faccio prendere da una sorta di ansia da prestazione. Invece che essere felice di affrontare una nuova avventura, mi sento stressato e negativo. Poi quando parto seriamente (quando comincio seriamente a pedalare) mi distendo un po’. Spero sia così anche stavolta.
    Ad amplificare questa negatività ci si mette pure la nebbia. Non nascondo che sono un po’ agitato all’idea di non avere visibilità, ed incazzato al pensiero che non mi potrò godere il paesaggio. Vabbè, che ci posso fare?
    Comunque il viaggio (il mini-viaggio) sta per iniziare, e spero che, come le altre volte, durante il suo srotolarsi io riesca a riempirmi di sensazioni (buone e non, l’importante è provare qualcosa). Però oggi in treno ha prevalso come sempre la preoccupazione che qualcosa potesse andare storto, colpa della mia eccessiva apprensione per ogni fottutissima cosa.
    C’è stato solo un momento, una ventina di minuti, in cui, preso dalla stanchezza, mi sono assopito sull’intercity mentre in cuffia ascoltavo la mia playlist; e in quei venti minuti sono riuscito a svuotarmi di ogni eccessiva preoccupazione e a fluttuare in uno stanco presente. È bella quella sensazione di pace e di torpore, è bello sentirsi sospeso tra la veglia e il sonno. È bello sentirsi leggeri.
    Che il viaggio abbia inizio.
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  • Day 6

    Reminiscing

    September 16, 2023 in Italy ⋅ ⛅ 18 °C

    On my train back to Innsbruck I had plenty of time to reflect on the bike trip.
    As the adrenaline wore off, the exhaustion was catching up with me. It was mixed with pride - we did what we set out to do, we cycled from the Austrian Alps to the Adriatic Sea in just five days, covering more than 500 km. However, for the next time - if vacation days allow - I would take some extra days, to have some time in the afternoon or evening to relax, to read a book and to be able to explore left or right of the road (we had to skip several waterfalls and lakes that might have been worth a visit). Maybe there would then be less to boast about, but at least it would feel more like a vacation. We already joked that considering our pace and daily efforts, we actually need another holiday just to recover from the trip. The statistic was created thanks to the data from Giacomo's watch and gives an impression of our efforts, explaining my exhaustion.

    In the end, all my stressing regarding the preparation had paid off - I hadn't forgotten anything important at home or was caught off-guard by anything. There were a few items of clothing I didn't need but they were mostly cold-weather gear, so it was not due to a miscalculation on my side that I had brought them, but rather luck in weather. I was especially glad about one item, that I had packed and never needed: the first aid kit.

    But apart from gear, I was also content with the deliberate choice of the route: I had wanted a route that was not too far away, rich in variety and not too difficult to ride. And we had had it all: the valleys of Salzburg, the Carinthian countryside, the pine forests of the train line, the lowlands of Italy and finally the coast of the Adriatic Sea. It was a memorable trip and I hadn't wished to be anywhere else.

    I especially enjoyed riding the old train line, though maybe I also just remember a romanticized version, because when I had a look at the photos at home it didn't look so impressive. It might have also been Giacomo, who made this leg of the journey so memorable for me, as it allowed us to ride next to each other (as opposed to the other parts, where we had to ride one after the other because of the oncoming traffic) - it amplified the feeling of companionship, of experiencing it together. Overall, I was pleased with our "social experiment": after all, we hadn't seen each other since our youth exchange back in 2019 where we met each other, so undertaking such an adventure was quite a dare. While we kept in contact via messenger and snail mail and know each other's inner life, dreams and insecurities, being in such trying circumstances as a bike trip - with exhaustion, hunger, constant "togetherness" and facing potential conflicts about decision making and leadership - is a challenge, but we passed.
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  • Day 6

    Like Father, Like Son

    September 16, 2023 in Italy ⋅ ☁️ 24 °C

    Some of you may recognize my jersey: it belonged to my father, who died in an mountaineering accident two months prior.
    Although this trip was never planned with my dad in mind, the vacancy that his loss caused was ever present. Starting at the preparation, where I was lost at the sheer range of options, no matter whether it regarded the clothes, shoes or other items of gear - I was overwhelmed as I am just a "commuter" and have not required any special gear so far and I would have needed his experience to navigate the almost unlimited options.

    It was not just the practical advice and help that I missed, but also his commentaries: what would he had replied to my posts here on FindPenguins? I know that he as a student himself undertook several bike trips to Greece with friends; I would have loved to compare our experiences - why we set out in the first place, how it felt, the joy of little things like a cold beverage, social dynamics ...

    But to my questions there will be no answers, and I am left with his jersey and a photograph of him that accompanied me on my trip.

    So this footprint goes out to you dad: I miss you.
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  • Day 6

    To Bid Farewell

    September 16, 2023 in Italy ⋅ ☁️ 24 °C

    In Verona, I had a layover of almost two hours (for Giacomo it was even more relaxed, as he prolonged the journey and returned home on Sunday) so we decided to get lunch. We found a charming little restaurant, hidden from the busy main street, that also offered local dishes. But the best part was that they had a digital menu in the form of a tablet where we could choose the language and each dish was also listed with a photo, so there was no need to wonder what we had actually ordered! It was a good ending of our trip together, before saying goodbye at the train station.Read more

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